Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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martedì 12 luglio 2011
Chi ha paura del sistema tedesco? di Gaetano Azzariti
Qualcuno si era illuso che la sconfitta annunciata di Silvio Berlusconi potesse porre fine anche alle pratiche autoreferenziali e miopi del ceto politico che è cresciuto nell’ultimo ventennio. Il penoso teatrino cui stiamo assistendo teso a bloccare la richiesta di un referendum eterodosso sul sistema elettorale dimostra come i vizi della vecchia politica non sono morti. Neppure a sinistra.
Ciò che maggiormente colpisce è la caparbia volontà dei politici di sempre di rinchiudere la dialettica sociale entro le rassicuranti (per loro) mura della dialettica partitica e le convenienze dei singoli esponenti politici. Così è stato sufficiente proporre un referendum che indicasse un’effettiva volontà di rottura con il passato per scatenare la reazione; facendo prevalere l’istinto di conservazione in un ceto politico non in grado di comprendere il cambiamento, né in grado di costruirlo.
Come al solito i conservatori hanno scambiato le parti, accusando chi vuole farla finita con l’attuale stato di cose, e definire un nuovo scenario istituzionale, di voler tornare alla «prima repubblica»; dimostrando in tal modo che - in fondo - in questa seconda repubblica non si sta poi così male. O almeno che le eventuali modifiche del sistema elettorale non devono spingersi sino al punto da mettere in gioco il carattere che la nostra democrazia costituzionale ha assunto nell’ultimo ventennio. Il bipolarismo come fondamento della repubblica.
Anzi la richiesta esplicita è quella di tornare agli albori della degenerazione maggioritaria, facendo rivivere il sistema elettorale introdotto nel 1993: alle origini appunto di un periodo che non si vuol far passare, che si vuole invece riscattare. Insomma, una classica prospettiva politica di restaurazione.
Ora che il bipolarismo serva a garantire alle forze politiche deboli e delegittimate socialmente di continuare a governare non v’è dubbio. L’esperienza italiana dimostra come, entro lo schema bipolare, la tattica politica (il gioco delle alleanze a prescindere dai contenuti) trova il suo terreno privilegiato. Pensavamo che fosse terminato il tempo della «governabilità» a prescindere, credevamo si potesse iniziare a pensare a una rappresentanza politica che rispecchiasse le trasformazioni della società. Una rappresentanza politica che riuscisse a riprendere il bandolo della matassa, restituendo ai partiti politici - così come pretende la costituzione - la loro funzione, quella di essere i principali strumenti per permettere a tutti i cittadini di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Per far questo c’era (ci sarebbe) bisogno di una chiara soluzione di continuità: non il ritorno alla vilipesa prima repubblica, bensì l’introduzione di una assolutamente nuova - per l’Italia - legge elettorale.
Non è vero, infatti, quel che viene affermato dai conservatori nostrani, dai difensori del vigente sistema di bipolarismo italiano. Non si tratta di «tornare al proporzionale», bensì di razionalizzare la forma di governo parlamentare. Al di là dei tecnicismi (essenziali, ma che non possono essere discussi in questa poche righe), si tratta di chiarire il punto di fondo. Il rilancio della dialettica politica, ingessata in quest’ultimo ventennio di perversione maggioritaria, deve essere favorito sottraendo a tutti i partiti le proprie rendite di posizione, gli incentivi e le stampelle che gli hanno permesso di governare, detenendo il potere, conquistando il governo, ma a scapito di ogni rappresentatività sociale, in molti casi anche contro la rappresentatività sociale.
Nella «prima repubblica» - si dice - l’esclusiva attenzione alla rappresentatività sociale ha prodotto un’incapacità di governo: troppo breve la durata dei governi, troppi i partiti, coalizioni litigiose, conventio ad excludendum. Senza entrare nel merito dei singoli aspetti indicati, quel che può dirsi è che per rafforzare le capacità dei governi, senza sacrificare troppo la ricerca di rappresentatività sociale, v’è un modo che la scienza costituzionalistica ha da tempo individuato e che ha dato buona prova di sé dove è stato introdotto: l’ odiato (dai nostri conservatori istituzionali) sistema tedesco.
Quel sistema che appena è stato evocato (peraltro nel modo improprio di un referendum di carattere abrogativo) ha scatenato una reazione senza precedenti. Evidentemente si era colpito nel segno. Ora le logiche interne a un partito sembrano stiano prevalendo, richiamando tutti all’ordine. E chi voleva tentare il cambiamento si tira indietro. Bisogna arrendersi alla conservazione?
fonte articolo 'Il Manifesto'
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Ciò che maggiormente colpisce è la caparbia volontà dei politici di sempre di rinchiudere la dialettica sociale entro le rassicuranti (per loro) mura della dialettica partitica e le convenienze dei singoli esponenti politici. Così è stato sufficiente proporre un referendum che indicasse un’effettiva volontà di rottura con il passato per scatenare la reazione; facendo prevalere l’istinto di conservazione in un ceto politico non in grado di comprendere il cambiamento, né in grado di costruirlo.
Come al solito i conservatori hanno scambiato le parti, accusando chi vuole farla finita con l’attuale stato di cose, e definire un nuovo scenario istituzionale, di voler tornare alla «prima repubblica»; dimostrando in tal modo che - in fondo - in questa seconda repubblica non si sta poi così male. O almeno che le eventuali modifiche del sistema elettorale non devono spingersi sino al punto da mettere in gioco il carattere che la nostra democrazia costituzionale ha assunto nell’ultimo ventennio. Il bipolarismo come fondamento della repubblica.
Anzi la richiesta esplicita è quella di tornare agli albori della degenerazione maggioritaria, facendo rivivere il sistema elettorale introdotto nel 1993: alle origini appunto di un periodo che non si vuol far passare, che si vuole invece riscattare. Insomma, una classica prospettiva politica di restaurazione.
Ora che il bipolarismo serva a garantire alle forze politiche deboli e delegittimate socialmente di continuare a governare non v’è dubbio. L’esperienza italiana dimostra come, entro lo schema bipolare, la tattica politica (il gioco delle alleanze a prescindere dai contenuti) trova il suo terreno privilegiato. Pensavamo che fosse terminato il tempo della «governabilità» a prescindere, credevamo si potesse iniziare a pensare a una rappresentanza politica che rispecchiasse le trasformazioni della società. Una rappresentanza politica che riuscisse a riprendere il bandolo della matassa, restituendo ai partiti politici - così come pretende la costituzione - la loro funzione, quella di essere i principali strumenti per permettere a tutti i cittadini di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Per far questo c’era (ci sarebbe) bisogno di una chiara soluzione di continuità: non il ritorno alla vilipesa prima repubblica, bensì l’introduzione di una assolutamente nuova - per l’Italia - legge elettorale.
Non è vero, infatti, quel che viene affermato dai conservatori nostrani, dai difensori del vigente sistema di bipolarismo italiano. Non si tratta di «tornare al proporzionale», bensì di razionalizzare la forma di governo parlamentare. Al di là dei tecnicismi (essenziali, ma che non possono essere discussi in questa poche righe), si tratta di chiarire il punto di fondo. Il rilancio della dialettica politica, ingessata in quest’ultimo ventennio di perversione maggioritaria, deve essere favorito sottraendo a tutti i partiti le proprie rendite di posizione, gli incentivi e le stampelle che gli hanno permesso di governare, detenendo il potere, conquistando il governo, ma a scapito di ogni rappresentatività sociale, in molti casi anche contro la rappresentatività sociale.
Nella «prima repubblica» - si dice - l’esclusiva attenzione alla rappresentatività sociale ha prodotto un’incapacità di governo: troppo breve la durata dei governi, troppi i partiti, coalizioni litigiose, conventio ad excludendum. Senza entrare nel merito dei singoli aspetti indicati, quel che può dirsi è che per rafforzare le capacità dei governi, senza sacrificare troppo la ricerca di rappresentatività sociale, v’è un modo che la scienza costituzionalistica ha da tempo individuato e che ha dato buona prova di sé dove è stato introdotto: l’ odiato (dai nostri conservatori istituzionali) sistema tedesco.
Quel sistema che appena è stato evocato (peraltro nel modo improprio di un referendum di carattere abrogativo) ha scatenato una reazione senza precedenti. Evidentemente si era colpito nel segno. Ora le logiche interne a un partito sembrano stiano prevalendo, richiamando tutti all’ordine. E chi voleva tentare il cambiamento si tira indietro. Bisogna arrendersi alla conservazione?
fonte articolo 'Il Manifesto'
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