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mercoledì 21 settembre 2011
ECONOMIA ITALIANA - Con Silvio B. dieci anni di declino di Pitagora
(vignetta Mauro Biani)
Standard & Poor’s ha abbassato di un gradino (da A+ ad A) il giudizio sui titoli dello stato italiano a «causa dell’indebolimento delle prospettive di crescita e dell’incertezza del contesto politico», aggiungendo che «le prospettive rimangono negative». L’agenzia si è quindi lasciata aperta la possibilità di procedere a breve a un ulteriore declassamento, tenendo presente che «il debito pubblico dell’Italia è il più alto tra i paesi sovrani con rating A». In ogni caso, il giudizio rimane nella fascia più elevata di voto.
Al di là della decisione, di fatto scontata in presenza di condizioni di mercato che attribuiscono alla carta italiana un premio al rischio più elevato rispetto alla bassa probabilità di bancarotta stimata dell’agenzia di rating, appaiono di un certo interesse le motivazioni fornite.
La sostenibilità dell’elevato debito pubblico è messa in discussione dalle insufficienti prospettive di crescita dell’economia italiana che, in linea con le principali istituzioni internazionali (Bce, Fmi, Ocse), sono state abbassate e dalla «fragilità della coalizione di governo e delle divergenze politiche all’interno del Parlamento che continueranno a limitare la capacità del governo di rispondere in maniera decisiva al difficile contesto macroeconomico».
In seguito all’interpretazione malevola del governo, secondo cui il giudizio sarebbe stato «influenzato da considerazioni politiche», l’agenzia ha diffuso una nota in cui si dice che «la valutazione è basata su un’analisi dettagliata e indipendente delle prospettive economiche e fiscali dell’Italia e sulle ipotesi relative all’andamento atteso del debito». L’agenzia ha poi precisato che «i rating indicano come diverse iniziative politiche possono impattare l’affidabilità finanziaria e non intendono dare alcun suggerimento sulle politiche che un governo dovrebbe o non dovrebbe perseguire». Dopo poche ore, il Presidente della Confindustria si è espressa in termini più netti dichiarando che «non c’è più tempo: o il governo è in grado di mettere in piedi una serie dimisure gravi, serie, anche impopolari, sennò deve andare a casa».
Il punto é che in oltre otto anni di governo della destra in quest’ultimo decennio il declino dell’economia italiana è stato enorme. Il Pil del nostro Paese è stato sopravanzato da quello della Cina, dell’India e del Brasile; altri Paesi ci tallonano con tassi di crescita attesi molto più elevati del nostro; quello della Turchia è più elevato di quello cinese; il peso dell’Italia negli scambi commerciali è crollato; malgrado politiche retributive del lavoro sfavorevoli, la competitività delle nostre aziende nel mercato mondiale è calata; sebbene la domanda di prodotti esteri sia debole per il calo dei redditi delle famiglie, l’interscambio delle partite correnti è negativo; non esistono «campioni nazionali» nei comparti tecnologicamente avanzati.
La ricchezza pro-capite degli italiani, distribuita in modo sempre più diseguale è diminuita in media di quasi un punto percentuale all’anno. La povertà si è diffusa e va interessando ceti sociali prima benestanti. L’indebitamento delle famiglie è cresciuto a ritmi elevati. Per quanto riguarda i conti pubblici si è sprecato il dividendo dell’euro non perseguendo all’inizio del decennio il pareggio di bilancio quando era un obiettivo di semplice portata, anche in virtù della migliore reputazione allora goduta dallo stato italiano in seguito al risanamento realizzato nel lustro precedente. I governi di destra hanno dissipato l’apprezzamento dei mercati accrescendo costantemente la spesa e allentando i controlli amministrativi, preventivi e susseguenti.
L’improvvisazione di questa estate nel formulare con colpevole ritardo una manovra correttiva dei conti pubblici e le intrinseche debolezze e ingiustizie di quella approvata in assenza di qualsiasi approfondimento da parte del Parlamento sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In una situazione di crollo della fiducia degli investitori che ha portato all’inusuale intervento dell’Eurosistema dell’acquisto di titoli di stato e al commissariamento del governo da parte di quelli francese e tedesco, la richiesta di S&P di un ricambio nelle politiche economiche del nostro Paese appare non solo ragionevole, ma scontato.
fonte articolo 'Il Manifesto'
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Standard & Poor’s ha abbassato di un gradino (da A+ ad A) il giudizio sui titoli dello stato italiano a «causa dell’indebolimento delle prospettive di crescita e dell’incertezza del contesto politico», aggiungendo che «le prospettive rimangono negative». L’agenzia si è quindi lasciata aperta la possibilità di procedere a breve a un ulteriore declassamento, tenendo presente che «il debito pubblico dell’Italia è il più alto tra i paesi sovrani con rating A». In ogni caso, il giudizio rimane nella fascia più elevata di voto.
Al di là della decisione, di fatto scontata in presenza di condizioni di mercato che attribuiscono alla carta italiana un premio al rischio più elevato rispetto alla bassa probabilità di bancarotta stimata dell’agenzia di rating, appaiono di un certo interesse le motivazioni fornite.
La sostenibilità dell’elevato debito pubblico è messa in discussione dalle insufficienti prospettive di crescita dell’economia italiana che, in linea con le principali istituzioni internazionali (Bce, Fmi, Ocse), sono state abbassate e dalla «fragilità della coalizione di governo e delle divergenze politiche all’interno del Parlamento che continueranno a limitare la capacità del governo di rispondere in maniera decisiva al difficile contesto macroeconomico».
In seguito all’interpretazione malevola del governo, secondo cui il giudizio sarebbe stato «influenzato da considerazioni politiche», l’agenzia ha diffuso una nota in cui si dice che «la valutazione è basata su un’analisi dettagliata e indipendente delle prospettive economiche e fiscali dell’Italia e sulle ipotesi relative all’andamento atteso del debito». L’agenzia ha poi precisato che «i rating indicano come diverse iniziative politiche possono impattare l’affidabilità finanziaria e non intendono dare alcun suggerimento sulle politiche che un governo dovrebbe o non dovrebbe perseguire». Dopo poche ore, il Presidente della Confindustria si è espressa in termini più netti dichiarando che «non c’è più tempo: o il governo è in grado di mettere in piedi una serie dimisure gravi, serie, anche impopolari, sennò deve andare a casa».
Il punto é che in oltre otto anni di governo della destra in quest’ultimo decennio il declino dell’economia italiana è stato enorme. Il Pil del nostro Paese è stato sopravanzato da quello della Cina, dell’India e del Brasile; altri Paesi ci tallonano con tassi di crescita attesi molto più elevati del nostro; quello della Turchia è più elevato di quello cinese; il peso dell’Italia negli scambi commerciali è crollato; malgrado politiche retributive del lavoro sfavorevoli, la competitività delle nostre aziende nel mercato mondiale è calata; sebbene la domanda di prodotti esteri sia debole per il calo dei redditi delle famiglie, l’interscambio delle partite correnti è negativo; non esistono «campioni nazionali» nei comparti tecnologicamente avanzati.
La ricchezza pro-capite degli italiani, distribuita in modo sempre più diseguale è diminuita in media di quasi un punto percentuale all’anno. La povertà si è diffusa e va interessando ceti sociali prima benestanti. L’indebitamento delle famiglie è cresciuto a ritmi elevati. Per quanto riguarda i conti pubblici si è sprecato il dividendo dell’euro non perseguendo all’inizio del decennio il pareggio di bilancio quando era un obiettivo di semplice portata, anche in virtù della migliore reputazione allora goduta dallo stato italiano in seguito al risanamento realizzato nel lustro precedente. I governi di destra hanno dissipato l’apprezzamento dei mercati accrescendo costantemente la spesa e allentando i controlli amministrativi, preventivi e susseguenti.
L’improvvisazione di questa estate nel formulare con colpevole ritardo una manovra correttiva dei conti pubblici e le intrinseche debolezze e ingiustizie di quella approvata in assenza di qualsiasi approfondimento da parte del Parlamento sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In una situazione di crollo della fiducia degli investitori che ha portato all’inusuale intervento dell’Eurosistema dell’acquisto di titoli di stato e al commissariamento del governo da parte di quelli francese e tedesco, la richiesta di S&P di un ricambio nelle politiche economiche del nostro Paese appare non solo ragionevole, ma scontato.
fonte articolo 'Il Manifesto'
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