Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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domenica 10 ottobre 2010
Ritirarsi subito di Giuliana Sgrena
(vignetta di Mauro Biani)
«Beato quel paese che non ha bisogno di eroi», diceva Bertolt Brecht. L’Italia è così poco beata che celebra come eroi anche i caduti in guerra. Chi va in guerra sa di rischiare la vita e non basta chiamare la spedizione missione di pace per evitare la morte. Non si tratta di disprezzare la vita dei militari, tutt’altro, vorremmo non dover più scrivere di morti in Afghanistan, ma per farlo occorre ritirarsi immediatamente da quel paese.E non siamo nemmeno «sciacalli» come sostiene il ministro della difesa La Russa perché vogliamo porre fine a una guerra che sta dissanguando un paese e anche le nostre truppe.
Con gli alpini morti ieri sono 34 gli italiani caduti in Afghanistan. E gli scontri a fuoco, le operazioni di guerra in cui sono coinvolte le nostre truppe aumentano e sono destinate ad aumentare, così come il nostro impegno. L’Italia ha promesso di inviare nuovi soldati, entro la fine dell’anno saranno 4.000. Non si tratta solo di maggior impegno, ma anche di un ingaggio sempre più rischioso sul terreno. Dopo il ritiro delle truppe britanniche da Sangin l’Italia ha dovuto spingere i propri soldati sempre più verso la provincia di Helmand, roccaforte dei taleban, per coprire zone prima occupate dagli americani. Ed è proprio in una di queste zone, il Gulistan, che è avvenuta l’imboscata di ieri.
Oggi è un giorno di lutto e noi rispettiamo il dolore delle famiglie, ma da domani bisogna impegnarsi per il ritiro immediato dall’Afghanistan. Non c’è molto da riflettere occorre trarre delle conclusioni dopo nove anni di guerra che non hanno risolto nessun problema agli afghani. Questo evidentemente non è l’obiettivo della Nato tanto che il governo italiano sostiene che siamo in Afghanistan per proteggere il nostro paese dal terrorismo. Peccato che a smentirlo sia il presidente Usa Obama: non penso che gli Stati uniti siano più sicuri, ha detto. Obama si scontra con i suoi generali per annunciare la data del ritiro dall’Afghanistan (2011) e in Italia il segretario del Pd Bersani sostiene che «non si agisce fuori dal contesto delle nostre alleanze». Certo il fallimento dell’intervento in Afghanistan segnerebbe una sconfitta per la Nato nel suo primo intervento al di fuori dei confini. E speriamo che questa sconfitta - non c’è nessuna possibilità di riuscita - contribuisca al disgregamento dell’Alleanza atlantica, che peraltro non ha più ragion d’essere dopo la caduta del muro di Berlino.
In questo panorama italiano desolato, dove solo l’Italia dei valori e la sinistra non più rappresentata in parlamento (Sel, Prc, etc.) chiedono il ritiro, risulta particolarmente assordante il silenzio e l’assenza di qualsiasi voce pacifista. Eppure alla vigilia della guerra in Iraq centinaia di migliaia di pacifisti erano scesi in piazza per evitare la guerra basata su un falso pretesto. La «seconda potenza mondiale» tuttavia non era riuscita a far sì che la macchina da guerra messa in moto da Bush si fermasse. La guerra e l’occupazione dell’Iraq sono state disastrose, il movimento pacifista probabilmente ha interiorizzato quel senso di sconfitta ed è rimasto paralizzato per anni. Nemmeno l’ammissione da parte di Obama che quella guerra è stata persa ha risvegliato l’orgoglio dei pacifisti. O sarà forse che nel frattempo quel che resta del pacifismo si è troppo istituzionalizzato per spingere i partiti della sinistra e scendere in piazza per chiedere la fine della guerra in Afghanistan?
Un movimento pacifista, quello italiano, che fin dalla sua nascita all’inizio degli anni ottanta aveva puntato la sua attenzione sul Mediterraneo e Medioriente convinto che quella fosse la zona più esplosiva, ora si è accasciato mentre il Medioriente e l’Afghanistan sono in fiamme.
I pacifisti tacciono mentre un gruppo di deputati e «intellettuali» bipartizan (compreso Roberto Saviano) esprimono la loro solidarietà al governo israeliano che nega qualsiasi diritto ai palestinesi. Possibile che non ci sia più nemmeno un intellettuale disposto a spendersi contro la guerra in Afghanistan per salvare gli afghani, innanzitutto, ma anche i soldati della coalizione, italiani compresi? Non vogliamo il ritiro dall’Afghanistan per abbandonare gli afghani al loro destino, chiediamo innanzitutto un sostegno diretto al popolo afghano con forme di cooperazione civile, svincolata da attività militari. La soluzione del conflitto deve avvenire attraverso processi diplomatici che non portino a una ulteriore tribalizzazione della società, che penalizzerebbe ancora una volta soprattutto le donne. È importante anche un sostegno al processo di giustizia trasnazionale per i crimini commessi dai vari signori della guerra (alcuni dei quali sono al governo), dai taleban, dalla Nato e dagli Stati uniti. La verità e la giustizia possono essere la base per una reale riconciliazione e modernizzazione del paese.
Rimettiamo le bandiere della pace alle nostre finestre, sarà un segnale che non vogliamo eroi ma un impegno a costruire la pace. A partire dall’Afghanistan.
Fonte articolo 'Il Manifesto'
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Con gli alpini morti ieri sono 34 gli italiani caduti in Afghanistan. E gli scontri a fuoco, le operazioni di guerra in cui sono coinvolte le nostre truppe aumentano e sono destinate ad aumentare, così come il nostro impegno. L’Italia ha promesso di inviare nuovi soldati, entro la fine dell’anno saranno 4.000. Non si tratta solo di maggior impegno, ma anche di un ingaggio sempre più rischioso sul terreno. Dopo il ritiro delle truppe britanniche da Sangin l’Italia ha dovuto spingere i propri soldati sempre più verso la provincia di Helmand, roccaforte dei taleban, per coprire zone prima occupate dagli americani. Ed è proprio in una di queste zone, il Gulistan, che è avvenuta l’imboscata di ieri.
Oggi è un giorno di lutto e noi rispettiamo il dolore delle famiglie, ma da domani bisogna impegnarsi per il ritiro immediato dall’Afghanistan. Non c’è molto da riflettere occorre trarre delle conclusioni dopo nove anni di guerra che non hanno risolto nessun problema agli afghani. Questo evidentemente non è l’obiettivo della Nato tanto che il governo italiano sostiene che siamo in Afghanistan per proteggere il nostro paese dal terrorismo. Peccato che a smentirlo sia il presidente Usa Obama: non penso che gli Stati uniti siano più sicuri, ha detto. Obama si scontra con i suoi generali per annunciare la data del ritiro dall’Afghanistan (2011) e in Italia il segretario del Pd Bersani sostiene che «non si agisce fuori dal contesto delle nostre alleanze». Certo il fallimento dell’intervento in Afghanistan segnerebbe una sconfitta per la Nato nel suo primo intervento al di fuori dei confini. E speriamo che questa sconfitta - non c’è nessuna possibilità di riuscita - contribuisca al disgregamento dell’Alleanza atlantica, che peraltro non ha più ragion d’essere dopo la caduta del muro di Berlino.
In questo panorama italiano desolato, dove solo l’Italia dei valori e la sinistra non più rappresentata in parlamento (Sel, Prc, etc.) chiedono il ritiro, risulta particolarmente assordante il silenzio e l’assenza di qualsiasi voce pacifista. Eppure alla vigilia della guerra in Iraq centinaia di migliaia di pacifisti erano scesi in piazza per evitare la guerra basata su un falso pretesto. La «seconda potenza mondiale» tuttavia non era riuscita a far sì che la macchina da guerra messa in moto da Bush si fermasse. La guerra e l’occupazione dell’Iraq sono state disastrose, il movimento pacifista probabilmente ha interiorizzato quel senso di sconfitta ed è rimasto paralizzato per anni. Nemmeno l’ammissione da parte di Obama che quella guerra è stata persa ha risvegliato l’orgoglio dei pacifisti. O sarà forse che nel frattempo quel che resta del pacifismo si è troppo istituzionalizzato per spingere i partiti della sinistra e scendere in piazza per chiedere la fine della guerra in Afghanistan?
Un movimento pacifista, quello italiano, che fin dalla sua nascita all’inizio degli anni ottanta aveva puntato la sua attenzione sul Mediterraneo e Medioriente convinto che quella fosse la zona più esplosiva, ora si è accasciato mentre il Medioriente e l’Afghanistan sono in fiamme.
I pacifisti tacciono mentre un gruppo di deputati e «intellettuali» bipartizan (compreso Roberto Saviano) esprimono la loro solidarietà al governo israeliano che nega qualsiasi diritto ai palestinesi. Possibile che non ci sia più nemmeno un intellettuale disposto a spendersi contro la guerra in Afghanistan per salvare gli afghani, innanzitutto, ma anche i soldati della coalizione, italiani compresi? Non vogliamo il ritiro dall’Afghanistan per abbandonare gli afghani al loro destino, chiediamo innanzitutto un sostegno diretto al popolo afghano con forme di cooperazione civile, svincolata da attività militari. La soluzione del conflitto deve avvenire attraverso processi diplomatici che non portino a una ulteriore tribalizzazione della società, che penalizzerebbe ancora una volta soprattutto le donne. È importante anche un sostegno al processo di giustizia trasnazionale per i crimini commessi dai vari signori della guerra (alcuni dei quali sono al governo), dai taleban, dalla Nato e dagli Stati uniti. La verità e la giustizia possono essere la base per una reale riconciliazione e modernizzazione del paese.
Rimettiamo le bandiere della pace alle nostre finestre, sarà un segnale che non vogliamo eroi ma un impegno a costruire la pace. A partire dall’Afghanistan.
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