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martedì 25 gennaio 2011
Piercuffarando di Marco Travaglio
Da tre giorni, fra i 70 mila detenuti stipati nelle patrie galere, c’è anche un politico. Il suo nome è Totò Cuffaro, assessore regionale siciliano col centrodestra poi col centrosinistra, due volte governatore di centrodestra, due volte senatore dell’Udc, ultimamente passato al Pdl, condannato a 7 anni in Cassazione per favoreggiamento mafioso. Prima che i carabinieri andassero a prelevarlo, s’è consegnato a Rebibbia, dove ha iniziato a scontare la pena. Trattandosi di mafia, non c’è indulto che tenga: i 7 anni, grazie alla “liberazione anticipata” prevista dalla legge penitenziaria, si ridurranno a 5 anni e 3 mesi. Il che significa che resterà dentro 2 anni e 3 mesi, poi potrà chiedere di uscire per scontare gli ultimi 3 anni ai servizi sociali. Come un cittadino qualsiasi. Ma per la nostra classe politica, profondamente mafiosa nella testa, Totò non è un cittadino come gli altri. L’idea che un politico finisca dentro come tutti i condannati è fuori dal mondo (anzi, dall’Italia: i penitenziari americani e inglesi pullulano di politici condannati per reati molto meno gravi). Infatti il sottosegretario Giovanardi esprime “preoccupazione e sconcerto” perché “si può finire in carcere se risultano agli atti un mare di dubbi”. Quali dubbi, vista la condanna in Cassazione, non è dato sapere. Forse Giovanardi pretende che la Cassazione lo interpelli prima di condannare qualcuno: “Onorevole, ha per caso dei dubbi? Ci faccia sapere”. E si sprecano i complimenti a Cuffaro (anche da parte di insospettabili come Rita Borsellino ed Enzo Bianco) per lo squisito bon ton mostrato consegnandosi alla giustizia anziché fuggire o insultare i giudici. Oh bella, e questo sarebbe un merito? Ogni giorno centinaia di criminali entrano in galera senza fiatare. Ma, avendo avuto un ex premier latitante e avendo un premier che ogni giorno strilla al golpe giudiziario, se un senatore si comporta come un detenuto normale merita l’encomio solenne. Tanto di cappello, anzi di coppola. Così si afferma che i politici non sono uguali agli altri cittadini, anzi sono tenuti a comportamenti molto meno legalitari di quelli richiesti all’uomo della strada. Cicchitto e Quagliariello elogiano VasaVasa “per la scelta compiuta”. Scelta? Quale scelta? Pare quasi che abbia fatto un favore ai giudici consegnandosi a Rebibbia. Il Giornale critica la Cassazione che “ha rigettato la richiesta del Pg” di derubricare il favoreggiamento da aggravato a semplice, per far scattare la solita prescrizione, mentre “di norma la richiesta del Pg viene accolta”. E questo sarebbe avvenuto non perché il Pg aveva torto, ma perché i giudici han voluto “salvare la credibilità dei pm”. Cioè: Il Giornale è sempre pronto a criticare i giudici “appiattiti” sui pm, ma se bocciano una richiesta dei pm li critica perché non si appiattiscono. Tanto per ribadire che per la Casta non valgono le regole normali, nemmeno quelle della logica. Un caso a parte è Casini, che nel 2006 e nel 2008 ha portato in Parlamento Cuffaro, anche dopo la condanna in primo grado. “Per me – spiegò Piercasinando – è una persona onesta, ho fiducia in lui. Mi assumo la responsabilità di ritenerlo una persona onesta. Quando e se verrà dimostrata una cosa diversa, vorrà dire che mi sbagliavo” (7.2.2006). Santoro gli domandò: “Lei garantisce per Cuffaro: ma se le cose si mettessero male dal punto di vista giudiziario, anche lei ne trarrebbe le conseguenze?”. E Casini: “Bè, questo è ovvio, mi assumo la responsabilità politica, l’ho detto davanti al Paese” (31 marzo 2008). Ora che la “persona onesta” è ufficialmente un favoreggiatore della mafia, Pier se la cava con un comunicato a quattro mani con Marco Follini (incredibilmente responsabile comunicazione del Pd): sono “umanamente dispiaciuti per la condanna”, “rispettano la sentenza” ma poi la cancellano: “Non rinneghiamo tanti anni di amicizia e resta in noi la convinzione che Cuffaro non sia mafioso”. Ecco, decidono loro. Nasce così ufficialmente il quarto grado di giudizio (per i politici, of course): Tribunale, Corte d’appello, Cassazione e Casinifollini.
fonte articolo 'Il Fatto Quotidiano'
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