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di 'Per quel che mi riguarda'

mercoledì 19 gennaio 2011

IL SATYRICON DI BERLUSCONI di Oliviero Beha



















Nel corso del 2010 per ben due volte – e al netto di Berlusconi in prima persona – venne evocata Tangentopoli. In primavera, a proposito della famosa casa di Scajola “a sua insaputa” dopo lo scandalo “Balducci/cricca/terremoto”, e di quello che ne seguì, e in estate ai margini della P3 o nuova P2 come fu chiamato il pasticcio di Verdini e soci. Mentre le Procure facevano il loro, mediaticamente e quindi politicamente oppure se preferite politicamente e quindi mediaticamente fiorì tutta una letteratura: è meglio o peggio di Tangentopoli, quella originaria col marchio del “mariuolo” Mario Chiesa e la classe dirigente della Prima Repubblica (sic!)? O ripete se stessa? O non è paragonabile? Eccetera. Oggi possiamo dire con soddisfazione cinematografica che non c’è proprio paragone: ma non tra una Tangentopoli e l’altra, non tra Craxi e Berlusconi, non tra Occhetto e Bersani, non tra i media di allora e quelli di oggi. Non c’è paragone tra quell’Italia e questa in un affresco complessivo. Il Berlusconi Satyricon sarebbe già sufficiente anche se penalmente non ci fossero i reati ipotizzati dalle indagini. Così come non c’è assolutamente confronto tra l’indignazione del “popolo dei fax” di quasi vent’anni fa e l’attuale passività rassegnata di molta parte dell’opinione pubblica, cui naturalmente e fortunatamente si sottraggono movimenti come il Popolo viola, in piazza di continuo e non solo virtualmente. Un’Italia irriconoscibile, lontanissima anche da quelle letture antropologiche e culturali sedicenti “definitive” che ci dipingerebbero così, come italiani invasi e servi storicamente da sempre: un tale vuoto di valori non ha eguali, e temo che Berlusconi ne sia soltanto la sempre iperbolica lente di ingrandimento. Sia per la pochezza dimostrata nel tempo dai suoi avversari, sia per quella complicità di convenienza o di inerzia dei suoi sodali o sottoposti. Berlusconi è nel peggio a misura loro, a misura d’Italia, e bisogna come spesso accade uscire dai confini per misurarne il baratro. Sembra paradossale, ma non ne faccio una questione penale, che pure potrebbe essere quella che lo perderà. E non ne faccio neppure una questione politica in senso stretto, cioè nel significato che abitualmente e ormai da una generazione si attribuisce al termine “politica”. Ossia occupazione di suolo pubblico, potere e denaro (e per alcuni anche “il resto”) da parte di un ceto politico “politicante” ed “esercente”. È invece uno snodo tremendamente politico nel nostro costume se si ridà all’aggettivo tutta l’importanza che aveva in passato. Prendo lo slogan apparentemente più remoto e ridicolizzato, quello del ’68 e del “personale che era politico”, oggi del tutto rovesciato in un “politico diventato personalissimo”, per rifarmi a un’idea della politica ormai nebulizzata sia in modo “postmoderno” o “sub contemporaneo” sia all’antica. Da Berlusconi alla “Drive In”, in questo senso coerente fino in fondo con un se stesso solo un po’ più avanti lungo la china dell’autunno/inverno del Patriarca testosteronico ma da sempre con tali caratteristiche. Da Alemanno a Roma quando cambiando la Giunta dopo i “soliti” scandali ha fatto fuori i finiani, compreso l’assessore alla cultura Croppi di cui diceva e dice un gran bene. Chiosando però la defenestrazione “obbligata” con un “è la politica, bellezza”. Non importava che sapesse fare l’assessore. Il caravanserraglio di Ruby, insomma, non è solo un film porno di cui siamo spettatori, che non dobbiamo essere costretti a subire. È invece la nostra realtà circostante ovviamente esasperata dal Signore degli Eccessi e dalla sua idea funzionale di democrazia in vendita. È sempre il Berlusconi che è in noi la bestia più dura da domare. Altro che Tangentopoli, in confronto quella era Disneyland.

fonte articolo e vignetta 'Il Fatto Quotidiano'
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