Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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sabato 23 luglio 2011
GENOVA 2001: Né verità, né giustizia, ma il black-out nella notte del diritto di Luigi De Magistris
(vignetta Mauro Biani)
Dieci anni fa: «Un altro mondo è possibile». Oggi: «Loro la crisi, noi la speranza». Spesso gli slogan riescono a veicolare un messaggio più chiaro delle riflessioni, come accade in questo caso: il caso del movimento altromondista che si diede appuntamento a Genova nel 2001 e che torna a rivedersi nel capoluogo ligure in questi giorni, sotto una veste nuova.
Due slogan - tema simile, tempi diversi - che testimoniano una verità: dieci anni fa, quel movimento multiforme che sfidò gli otto potenti del mondo aveva ragione, la sua agenda politica era una profezia che puntualmente si è avverata. Giovani, associazioni, sindacati, esponenti di forze politiche, cattolici, pacifisti, movimenti e semplici cittadini chiedevano un'inversione della rotta politica mondiale, soprattutto di quel modello di sviluppo economico fondato sul mito del mercato globale senza regole, se non quella del suo dominio assoluto su tutto il resto, giustizia sociale compresa ovviamente.
La Cassandra altromondista preannunciò i dissesti ambientali, risultato di uno sfruttamento scellerato delle risorse naturali e incentrato sulle energie tradizionali. Denunciò le distorsioni di un privato che fagocita il
pubblico e del profitto multinazionale che schiaccia le economie nazionali, lo tsunami dei mercati causato da una speculazione finanziaria che divora l'economia reale, la gestione dissennata dell'acqua affidata alle Spa e non più garantita a tutti gli esseri umani come diritto non commerciabile.
Con puntualità si è verificata ogni previsione: la bolla finanziaria degli Usa che ha fatto tremare i mercati, la delocalizzazione del sistema industriale dell'Europa, le catastrofi naturali, la spaccatura drammatica fra Nord e Sud del mondo. Nessun attore internazionale, però, ha ancora chiesto scusa a quel movimento del luglio 2001. Nessun governo, nessun presidente della Bce o del Fmi, nessun capo di Stato, nessun manager rampante ha chiesto scusa a quel movimento per averlo tacciato di idealismo e per averlo represso (per timore della sua forza), riconoscendo che non aveva torto nel chiedere una globalizzazione dei diritti universali e un modello di sviluppo sostenibile, un altro mondo rispetto a quello dominato dalla sola legge del profitto e dell'apparenza, un altro tipo di democrazia intesa come partecipazione attiva dei singoli a difesa del bene collettivo. Nessuno, soprattutto, ha chiesto scusa a quel movimento per averne ferito l'idealità reprimendolo nel sangue, producendo la più grave violazione dello stato di diritto che la memoria occidentale ricordi dal dopoguerra ad oggi (Amnesty). Diaz, Bolzaneto, via Tolemaide e, infine, l'apice drammatico di Piazza Alimonda: una catena di comando istituzionale impazzita ai suoi vertici apicali, con una gestione dell'ordine pubblico che, fin nei giorni precedenti l'appuntamento, già si preannunciava più simile al Cile di Pinochet che ad un paese democratico europeo. A distanza di dieci anni, resta l'incapacità di rispondere al desiderio di giustizia e verità - politica e giudiziaria - per quella ferita nazionale.
Genova 2001 non ha avuto conseguenze pubbliche nonostante le promesse pronunciate a caldo di quell'evento: nessun allontanamento degli attori istituzionali e politici - i cui nomi tutti conosciamo bene - che hanno generato il black-out del diritto, non l'introduzione del reato di tortura (imprescrittibile) nel codice penale o dell'identificazione alfanumerica sulla divisa degli agenti. E zero commissione d'inchiesta (che poteva quanto meno avere un valore politico). Soprattutto resta un'uccisione, quella di Carlo Giuliani, per la quale Haidi e Giuliano ancora invocano verità.
Al contrario, sulla gran parte dei reati (dalla calunnia alle lesioni, dall'abuso d'ufficio alla violenza privata, dal falso ideologico alla violazione della convenzione per i diritti dell'uomo) commessi da esponenti delle forze dell'ordine è calato il sipario della prescrizione o calerà in futuro, mentre le condanne ai vertici - paradosso inaccettabile - hanno comportato una progressione di carriera nelle questure, nel Dac, nell'Aisi, nello Sco, nell'Interpol.
Per quella pagina entusiasmante e drammatica, nessuno ha chiesto scusa e nessuno ha detto «ho sbagliato». La grande vittoria? Quel movimento carsico altromondista, che in molti vorrebbero inghiottito nel nulla, vive ancora. Per fortuna. Nei movimenti per i beni comuni e contro le discariche, nei comitati anti Tav e no Dal Molin, nel network pacifista, nella campagna contro il debito, nel popolo dei diritti. In Europa e nel mondo. E in particolare, in queste ore, rivive a Genova.
fonte articolo'Il Manifesto'
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Dieci anni fa: «Un altro mondo è possibile». Oggi: «Loro la crisi, noi la speranza». Spesso gli slogan riescono a veicolare un messaggio più chiaro delle riflessioni, come accade in questo caso: il caso del movimento altromondista che si diede appuntamento a Genova nel 2001 e che torna a rivedersi nel capoluogo ligure in questi giorni, sotto una veste nuova.
Due slogan - tema simile, tempi diversi - che testimoniano una verità: dieci anni fa, quel movimento multiforme che sfidò gli otto potenti del mondo aveva ragione, la sua agenda politica era una profezia che puntualmente si è avverata. Giovani, associazioni, sindacati, esponenti di forze politiche, cattolici, pacifisti, movimenti e semplici cittadini chiedevano un'inversione della rotta politica mondiale, soprattutto di quel modello di sviluppo economico fondato sul mito del mercato globale senza regole, se non quella del suo dominio assoluto su tutto il resto, giustizia sociale compresa ovviamente.
La Cassandra altromondista preannunciò i dissesti ambientali, risultato di uno sfruttamento scellerato delle risorse naturali e incentrato sulle energie tradizionali. Denunciò le distorsioni di un privato che fagocita il
pubblico e del profitto multinazionale che schiaccia le economie nazionali, lo tsunami dei mercati causato da una speculazione finanziaria che divora l'economia reale, la gestione dissennata dell'acqua affidata alle Spa e non più garantita a tutti gli esseri umani come diritto non commerciabile.
Con puntualità si è verificata ogni previsione: la bolla finanziaria degli Usa che ha fatto tremare i mercati, la delocalizzazione del sistema industriale dell'Europa, le catastrofi naturali, la spaccatura drammatica fra Nord e Sud del mondo. Nessun attore internazionale, però, ha ancora chiesto scusa a quel movimento del luglio 2001. Nessun governo, nessun presidente della Bce o del Fmi, nessun capo di Stato, nessun manager rampante ha chiesto scusa a quel movimento per averlo tacciato di idealismo e per averlo represso (per timore della sua forza), riconoscendo che non aveva torto nel chiedere una globalizzazione dei diritti universali e un modello di sviluppo sostenibile, un altro mondo rispetto a quello dominato dalla sola legge del profitto e dell'apparenza, un altro tipo di democrazia intesa come partecipazione attiva dei singoli a difesa del bene collettivo. Nessuno, soprattutto, ha chiesto scusa a quel movimento per averne ferito l'idealità reprimendolo nel sangue, producendo la più grave violazione dello stato di diritto che la memoria occidentale ricordi dal dopoguerra ad oggi (Amnesty). Diaz, Bolzaneto, via Tolemaide e, infine, l'apice drammatico di Piazza Alimonda: una catena di comando istituzionale impazzita ai suoi vertici apicali, con una gestione dell'ordine pubblico che, fin nei giorni precedenti l'appuntamento, già si preannunciava più simile al Cile di Pinochet che ad un paese democratico europeo. A distanza di dieci anni, resta l'incapacità di rispondere al desiderio di giustizia e verità - politica e giudiziaria - per quella ferita nazionale.
Genova 2001 non ha avuto conseguenze pubbliche nonostante le promesse pronunciate a caldo di quell'evento: nessun allontanamento degli attori istituzionali e politici - i cui nomi tutti conosciamo bene - che hanno generato il black-out del diritto, non l'introduzione del reato di tortura (imprescrittibile) nel codice penale o dell'identificazione alfanumerica sulla divisa degli agenti. E zero commissione d'inchiesta (che poteva quanto meno avere un valore politico). Soprattutto resta un'uccisione, quella di Carlo Giuliani, per la quale Haidi e Giuliano ancora invocano verità.
Al contrario, sulla gran parte dei reati (dalla calunnia alle lesioni, dall'abuso d'ufficio alla violenza privata, dal falso ideologico alla violazione della convenzione per i diritti dell'uomo) commessi da esponenti delle forze dell'ordine è calato il sipario della prescrizione o calerà in futuro, mentre le condanne ai vertici - paradosso inaccettabile - hanno comportato una progressione di carriera nelle questure, nel Dac, nell'Aisi, nello Sco, nell'Interpol.
Per quella pagina entusiasmante e drammatica, nessuno ha chiesto scusa e nessuno ha detto «ho sbagliato». La grande vittoria? Quel movimento carsico altromondista, che in molti vorrebbero inghiottito nel nulla, vive ancora. Per fortuna. Nei movimenti per i beni comuni e contro le discariche, nei comitati anti Tav e no Dal Molin, nel network pacifista, nella campagna contro il debito, nel popolo dei diritti. In Europa e nel mondo. E in particolare, in queste ore, rivive a Genova.
fonte articolo'Il Manifesto'
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