Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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venerdì 22 luglio 2011
Giuliano Pisapia «Lo Stato dovrebbe chiedere scusa per quella pagina, indegna di una democrazia». intervista di Eleonora Martini
Lo Stato? «Dovrebbe chiedere scusa per quella "macelleria messicana", una pagina buia nella storia italiana, indegna di una democrazia. Perché ormai una verità storica c’è ed è incontestabile». Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, fu nel 2001 testimone diretto delle giornate di Genova oltre che legale della famiglia di Carlo Giuliani.
Sindaco, pensa che dobbiamo attendere la verità giudiziaria definitiva prima di ricostruirne una storica?
No, la verità storica è stata ormai ricostruita quasi per intero ed è incontestabile. In quei giorni c’è stata una volontà precisa da parte del governo di limitare le libertà democratiche in modo da bloccare un movimento pacifista che si batteva contro le ingiustizie nel mondo e in Italia. Venne strumentalizzata la presenza di piccoli gruppi che nulla avevano a che fare col grande movimento che si era sviluppato in quegli anni e che aveva scelto metodi non violenti. C’è stata una repressione indegna di uno stato democratico riconosciuta in sede giudiziaria anche da alti esponenti delle forze dell’ordine che parlarono di «macelleria messicana».Gran parte di quella verità è stata accertata nelle aule giudiziarie, come per la Diaz e Bolzaneto, anche se non si è potuto andare oltre le singole responsabilità.
Però, al di là delle prescrizioni e degli esiti finali dei processi, è stato confermato quello che il movimento aveva denunciato e che gran parte del Paese ha capito e compreso. Così non è stato per Carlo Giuliani, invece, come lei ha voluto ricordare nel decimo anniversario della morte.
No. E infatti Heidi, Giuliano e Elena Giuliani hanno sempre chiesto un pubblico dibattimento per poter accertare cosa esattamente è successo quel giorno. Riuscire a ricostruire l’esatta dinamica: se il carabiniere Mario Placanica aveva sparato ad altezza d’uomo o in aria, per esempio. Ma soprattutto accertare l’eventuale responsabilità di chi ha gestito l’ordine pubblico. E non si dica che su questo ha già dato una risposta la Corte europea dei Diritti umani perché Strasburgo nella prima sentenza ha addirittura condannato lo Stato italiano al risarcimento dei familiari. Ma anche in quella sede gli elementi che hanno portato all’archiviazione del procedimento sono stati quasi tutti di parte. La verità sarebbe potuta emergere solo con perizie disposte da un giudice al di sopra delle parti. Sia chiara una cosa: la famiglia e gli amici non aspiravano alla punizione del carabiniere, che incontestabilmente era lì senza la preparazione necessaria.
Ed è anche incontestabile che quello che avvenne fu frutto di una scelta politica. La Commissione d’inchiesta parlamentare avrebbe potuto accertare una verità politica?
Non c’è dubbio, perché la verità politica non spetta alla magistratura, la commissione d’inchiesta è lo strumento previsto dalla Costituzione in casi del genere. Si è invece voluto fare invece una Commissione d’indagine, che però ha limitatissimi poteri e non può accertare quindi anche le responsabilità politiche.
Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida ha presentato ricorso a Strasburgo perché l’Italia introduca il reato di tortura. Lei ritiene necessario questo strumento come deterrente contro certi abusi che da Genova in poi purtroppo abbiamo dovuto registrare ancora nelle carceri o nelle caserme, o piuttosto la ritiene un’inutile azione di sfiducia contro le forze dell’ordine?
A parte che l’introduzione di questa fattispecie penale ci è imposta dagli obblighi internazionali, avrebbe secondo me due finalità come si è dimostrato in altri Paesi. Da un lato come deterrente, perché come si è evidenziato con i fatti di Genova occorrono strumenti giuridici e penali per differenziare certi abusi meno gravi e con tempi brevi di prescrizione da episodi di vera e propria tortura. Ma d’altra parte sarebbe una maggiore garanzia per le stesse forze dell’ordine impegnate nell’eliminare il più possibile le «mele marce» che agiscono convinte dell’impunità. Non va visto assolutamente come un atto finalizzato a intimorire le forze dell’ordine ma proprio invece a salvaguardare quella maggioranza che fa il proprio dovere nella legalità.
Amnesty international chiede strumenti di identificazione che diano maggiore trasparenza all’operato della polizia, lei sarebbe d’accordo?
Innanzitutto bisogna evitare di mandare in situazioni difficili persone non sufficientemente preparate o senza strumenti adeguati per gestire l’ordine pubblico in maniera democratica. Faccio l’esempio della polemica che c’è qui a Milano sulla presenza dei miliari a presidio di siti sensibili: sono gli stessi sindacati di polizia che chiedono di non usare i militari nella gestione dell’ordine pubblico perché non ne hanno la professionalità. Allora, oltre ad una maggiore preparazione e a migliori strumenti, credo che la possibilità di identificare chi commette un abuso – che non significa nome e cognome sulla divisa – sarebbe non solo una garanzia per il cittadino ma anche per tutti coloro che operano correttamente. Bisogna però far passare il messaggio che ogni abuso, anche se piccolo, non può trovare impunità perché così si apre la strada verso l’uso indiscriminato della violenza. Di conseguenza c’è il rischio che si alzi il livello della diffidenza e alla fine anche dello scontro. Abbiamo il dovere di costruire un rapporto solidaristico tra cittadini e forze dell’ordine.
E come pensa di usare quegli strumenti che ha un sindaco rispetto alla gestione dell’ordine pubblico, per far crescere questo tipo di rapporto?
Nei limiti che ha un’amministrazione comunale, abbiamo già iniziato a dare alla polizia locale indicazioni di segno completamente opposto a quello di chi ci ha preceduto. E i risultati cominciano già a farsi vedere. Invece di continuare a sgomberare campi rom, spostando così il problema da una parte all’altra, o di procedere con ordinanze del sindaco che chiudevano di fatto interi quartieri instaurando un rapporto conflittuale con i cittadini, abbiamo visto che per contrastare comportamenti illegali o non corretti è molto più efficace la prevenzione. Che è fatta di dialogo, di confronto, di convincimento a non intraprendere comportamenti sbagliati. Un metodo che, a solo un mese e mezzo dall’applicazione, i cittadini e gli stessi vigili apprezzano moltissimo.
E dunque, in nome di questo rapporto di fiducia, c’è bisogno delle scuse dello Stato per quella pagine nera che fu Genova?
Sì, sarebbero auspicabili. Anche se in alcuni casi ci sono già state da parte di rappresentanti istituzionali. Però quello che ci dà la forza è sapere che la società italiana, grazie anche alla ricostruzione fatta dalla stampa, ha preso atto che in quei giorni c’è stata la limitazione, e in alcuni casi la cancellazione, dei diritti costituzionali. Di fatto un pezzo dello Stato ha già espresso le proprie scuse: è stata la magistratura, che nelle motivazioni delle sentenze sulla Diaz e su Bolzaneto e nel pubblico dibattimento ha ricostruito correttamente ed è arrivata ad accertare una verità giudiziaria riconoscendo così anche i diritti delle vittime.
fonte intervista 'Il Manifesto'
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Sindaco, pensa che dobbiamo attendere la verità giudiziaria definitiva prima di ricostruirne una storica?
No, la verità storica è stata ormai ricostruita quasi per intero ed è incontestabile. In quei giorni c’è stata una volontà precisa da parte del governo di limitare le libertà democratiche in modo da bloccare un movimento pacifista che si batteva contro le ingiustizie nel mondo e in Italia. Venne strumentalizzata la presenza di piccoli gruppi che nulla avevano a che fare col grande movimento che si era sviluppato in quegli anni e che aveva scelto metodi non violenti. C’è stata una repressione indegna di uno stato democratico riconosciuta in sede giudiziaria anche da alti esponenti delle forze dell’ordine che parlarono di «macelleria messicana».Gran parte di quella verità è stata accertata nelle aule giudiziarie, come per la Diaz e Bolzaneto, anche se non si è potuto andare oltre le singole responsabilità.
Però, al di là delle prescrizioni e degli esiti finali dei processi, è stato confermato quello che il movimento aveva denunciato e che gran parte del Paese ha capito e compreso. Così non è stato per Carlo Giuliani, invece, come lei ha voluto ricordare nel decimo anniversario della morte.
No. E infatti Heidi, Giuliano e Elena Giuliani hanno sempre chiesto un pubblico dibattimento per poter accertare cosa esattamente è successo quel giorno. Riuscire a ricostruire l’esatta dinamica: se il carabiniere Mario Placanica aveva sparato ad altezza d’uomo o in aria, per esempio. Ma soprattutto accertare l’eventuale responsabilità di chi ha gestito l’ordine pubblico. E non si dica che su questo ha già dato una risposta la Corte europea dei Diritti umani perché Strasburgo nella prima sentenza ha addirittura condannato lo Stato italiano al risarcimento dei familiari. Ma anche in quella sede gli elementi che hanno portato all’archiviazione del procedimento sono stati quasi tutti di parte. La verità sarebbe potuta emergere solo con perizie disposte da un giudice al di sopra delle parti. Sia chiara una cosa: la famiglia e gli amici non aspiravano alla punizione del carabiniere, che incontestabilmente era lì senza la preparazione necessaria.
Ed è anche incontestabile che quello che avvenne fu frutto di una scelta politica. La Commissione d’inchiesta parlamentare avrebbe potuto accertare una verità politica?
Non c’è dubbio, perché la verità politica non spetta alla magistratura, la commissione d’inchiesta è lo strumento previsto dalla Costituzione in casi del genere. Si è invece voluto fare invece una Commissione d’indagine, che però ha limitatissimi poteri e non può accertare quindi anche le responsabilità politiche.
Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida ha presentato ricorso a Strasburgo perché l’Italia introduca il reato di tortura. Lei ritiene necessario questo strumento come deterrente contro certi abusi che da Genova in poi purtroppo abbiamo dovuto registrare ancora nelle carceri o nelle caserme, o piuttosto la ritiene un’inutile azione di sfiducia contro le forze dell’ordine?
A parte che l’introduzione di questa fattispecie penale ci è imposta dagli obblighi internazionali, avrebbe secondo me due finalità come si è dimostrato in altri Paesi. Da un lato come deterrente, perché come si è evidenziato con i fatti di Genova occorrono strumenti giuridici e penali per differenziare certi abusi meno gravi e con tempi brevi di prescrizione da episodi di vera e propria tortura. Ma d’altra parte sarebbe una maggiore garanzia per le stesse forze dell’ordine impegnate nell’eliminare il più possibile le «mele marce» che agiscono convinte dell’impunità. Non va visto assolutamente come un atto finalizzato a intimorire le forze dell’ordine ma proprio invece a salvaguardare quella maggioranza che fa il proprio dovere nella legalità.
Amnesty international chiede strumenti di identificazione che diano maggiore trasparenza all’operato della polizia, lei sarebbe d’accordo?
Innanzitutto bisogna evitare di mandare in situazioni difficili persone non sufficientemente preparate o senza strumenti adeguati per gestire l’ordine pubblico in maniera democratica. Faccio l’esempio della polemica che c’è qui a Milano sulla presenza dei miliari a presidio di siti sensibili: sono gli stessi sindacati di polizia che chiedono di non usare i militari nella gestione dell’ordine pubblico perché non ne hanno la professionalità. Allora, oltre ad una maggiore preparazione e a migliori strumenti, credo che la possibilità di identificare chi commette un abuso – che non significa nome e cognome sulla divisa – sarebbe non solo una garanzia per il cittadino ma anche per tutti coloro che operano correttamente. Bisogna però far passare il messaggio che ogni abuso, anche se piccolo, non può trovare impunità perché così si apre la strada verso l’uso indiscriminato della violenza. Di conseguenza c’è il rischio che si alzi il livello della diffidenza e alla fine anche dello scontro. Abbiamo il dovere di costruire un rapporto solidaristico tra cittadini e forze dell’ordine.
E come pensa di usare quegli strumenti che ha un sindaco rispetto alla gestione dell’ordine pubblico, per far crescere questo tipo di rapporto?
Nei limiti che ha un’amministrazione comunale, abbiamo già iniziato a dare alla polizia locale indicazioni di segno completamente opposto a quello di chi ci ha preceduto. E i risultati cominciano già a farsi vedere. Invece di continuare a sgomberare campi rom, spostando così il problema da una parte all’altra, o di procedere con ordinanze del sindaco che chiudevano di fatto interi quartieri instaurando un rapporto conflittuale con i cittadini, abbiamo visto che per contrastare comportamenti illegali o non corretti è molto più efficace la prevenzione. Che è fatta di dialogo, di confronto, di convincimento a non intraprendere comportamenti sbagliati. Un metodo che, a solo un mese e mezzo dall’applicazione, i cittadini e gli stessi vigili apprezzano moltissimo.
E dunque, in nome di questo rapporto di fiducia, c’è bisogno delle scuse dello Stato per quella pagine nera che fu Genova?
Sì, sarebbero auspicabili. Anche se in alcuni casi ci sono già state da parte di rappresentanti istituzionali. Però quello che ci dà la forza è sapere che la società italiana, grazie anche alla ricostruzione fatta dalla stampa, ha preso atto che in quei giorni c’è stata la limitazione, e in alcuni casi la cancellazione, dei diritti costituzionali. Di fatto un pezzo dello Stato ha già espresso le proprie scuse: è stata la magistratura, che nelle motivazioni delle sentenze sulla Diaz e su Bolzaneto e nel pubblico dibattimento ha ricostruito correttamente ed è arrivata ad accertare una verità giudiziaria riconoscendo così anche i diritti delle vittime.
fonte intervista 'Il Manifesto'
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