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giovedì 13 maggio 2010
SCAJIOLA NON FA PIÙ LO SPAVALDO di Luca Telese
Dopo la memorabile frase “sulla casa pagata a mia insaputa” Scajola cambia strategia e non va a testimoniare a Perugia
Sorpresa. Claudio Scajola torna a scappare: dribbla l'inchiesta dei magistrati e l'interrogatorio già programmato a Perugia sulla casa con vista sul Colosseo comprata (ipse dixit) “a sua insaputa”. Con una mossa dettata dalle esigenze tattiche della propria strategia difensiva, infatti, ieri l'ex ministro ci ha regalato l'ultimo colpo di scena. Non si presenterà, come annuncia il suo avvocato, di fronte ai magistrati in un incontro che la sua stessa difesa aveva fissato. Anzi. Il suo avvocato - Giorgio Perroni - ieri spiegava: “Non riesco obiettivamente a comprendere come la procura possa valutare di sentire l’onorevole Scajola in una veste che parrebbe oramai solo formalmente, ma già sostanzialmente, quella di persona informata sui fatti”. Seconda contestazione: “È inoltre mia convinzione che la Procura di Perugia non sia competente a conoscere di questa vicenda , essendo competente il Tribunale dei ministri”.
Un gesto di schizofrenia? Tutt'altro. Un atto perfettamente legittimo sul piano legale. Una mossa pianificata con scaltrezza per limitare i danni dell'inchiesta. Se Scajola fosse stato sentito come testimone - infatti - avrebbe avuto l'obbligo di dire la verità, non avrebbe potuto rifiutare di replicare alle domande avvalendosi della facoltà di “non rispondere” (che la legge riconosce agli imputati), e avrebbe quindi rischiato una incriminazione per “falsa testimonianza” se avesse deciso di mantenere una linea di difesa reticente sull'atto di vendita di via Fagutale e sull'entità della somma corrisposta in nero alle venditrici dell'appartamento. E ancora sull'origine di quel denaro e sui motivi che hanno spinto l'imprenditore Diego Anemone a metterglielo a disposizione (tre temi su cui le sue frammentarie dichiarazioni sono in contrasto con le deposizioni di quattro testimoni). Ma se sul piano delle strategie difensive e su quello dell'utilità tattica il gesto appare comprensibile e logico, sul terreno della politica la mossa appare disperata e suicida, e corrisponde di fatto ad una plateale ammissione di colpa. Finché era ministro in carica, infatti, Scajola aveva annunciato che sarebbe andato a testimoniare dai pm: "Ho proposto al magistrato – spiegava solo dieci giorni fa a Francesco Bei su Repubblica – un incontro a breve”.
Spiegazione semplice: allora Scajola si illudeva di poter salvare la poltrona, e doveva assolutamente mostrarsi disponibile, sereno. Adesso che le dimissioni sono irrevocabili, ogni tentativo di salvare la faccia diventa disperato e passa in secondo piano rispetto all'esigenza di sottrarsi all'inchiesta. La sequenza delle giravolte del ministro, e dei suoi repentini cambi di linea appare impressionante. Il 28 aprile, durante una conferenza stampa, inseguito dalla domanda (solitaria) di un giornalista de Il Fatto, si dichiara sdegnato. “Che cosa ha da replicare alla testimonianza dell'architetto Zampolini?”, fu costretto a urlargli (letteralmente) il nostro Vincenzo Iurillo mentre correva via protetto dalla scorta a Napoli. “Non ho nulla da dichiarare perché non voglio partecipare a questa bruttissima abitudine dei processi mediatici”, rispose il ministro. E ancora: “Sono assolutamente amareggiato e disgustato – aggiunse con una alzata di orgoglio – che il segreto istruttorio fisica sui giornali”. Era iniziata la grande fuga dalla vergogna delle accuse infamanti. “Sono addolorato perché si sta cercando di mettere in mezzo mia figlia”, aggiunse il giorno dopo.Lo stesso giorno, a Il Giornale, consegnò un altro tentativo di mettere una pezza e ostentare sicurezza: “In questa occasione – diceva il ministro – non faccio come nel caso di Biagi, non me ne vado. Altrimenti sembra che mi hanno beccato con il sorcio in bocca”.
Poi solo il 4 maggio, sommerso dalla mole di particolari compromettenti, e scaricato anche dai giornali di centrodestra come Libero e il Giornale (“Chiarisca o si dimetta”, titolarono Feltri e Sallusti) lambito da un'onda di indignazione che arrivava anche dai suoi stessi elettori, Scajola getta la spugna. Si presenta in conferenza stampa con l'aria apparentemente contrita , lo sguardo vitreo che vaga nel vuoto, un moto di indignazione quasi recitato: “Un ministro non può sopportare di abitare in una casa pagata da altri!”. L'uomo forte del Pdl si dimette stringendo i denti: “Mi devo difendere. E per difendermi non posso continuare a fare il ministro”. La coda della conferenza stampa è quasi tragicomica. Il ministro finisce di leggere la sua letterina, si alza con scatto felino e fugge via, mentre i giornalisti protestano perché non hanno avuto la possibilità di fare domande. “Mi devo difendere”. Ma una volta persa la faccia, l'unica difesa possibile, se si esclude la patetica proposta (tecnicamente irrealizzabile) di restituire la casa e revocare l'atto, è limitare i danni, puntare alla prescrizione, sperare nel Tribunale dei ministri (la vendita è stata conclusa mentre era in carica) e nell'immunità parlamentare (è tuttora deputato). Altro particolare grottesco. Nella conferenza stampa del 4 maggio Scajola ribadiva di non essere “neanche indagato”.Ieri, per le esigenze tattiche di cui sopra, il suo avvocato faceva capire che adesso preferirebbe esserlo. Un bel paradosso. Conoscendo il ministro, è possibile che possa essere interrogato come indagato. Magari “a sua insaputa”.
Fonte articolo e foto 'Il Fatto Quotidiano'
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Un gesto di schizofrenia? Tutt'altro. Un atto perfettamente legittimo sul piano legale. Una mossa pianificata con scaltrezza per limitare i danni dell'inchiesta. Se Scajola fosse stato sentito come testimone - infatti - avrebbe avuto l'obbligo di dire la verità, non avrebbe potuto rifiutare di replicare alle domande avvalendosi della facoltà di “non rispondere” (che la legge riconosce agli imputati), e avrebbe quindi rischiato una incriminazione per “falsa testimonianza” se avesse deciso di mantenere una linea di difesa reticente sull'atto di vendita di via Fagutale e sull'entità della somma corrisposta in nero alle venditrici dell'appartamento. E ancora sull'origine di quel denaro e sui motivi che hanno spinto l'imprenditore Diego Anemone a metterglielo a disposizione (tre temi su cui le sue frammentarie dichiarazioni sono in contrasto con le deposizioni di quattro testimoni). Ma se sul piano delle strategie difensive e su quello dell'utilità tattica il gesto appare comprensibile e logico, sul terreno della politica la mossa appare disperata e suicida, e corrisponde di fatto ad una plateale ammissione di colpa. Finché era ministro in carica, infatti, Scajola aveva annunciato che sarebbe andato a testimoniare dai pm: "Ho proposto al magistrato – spiegava solo dieci giorni fa a Francesco Bei su Repubblica – un incontro a breve”.
Spiegazione semplice: allora Scajola si illudeva di poter salvare la poltrona, e doveva assolutamente mostrarsi disponibile, sereno. Adesso che le dimissioni sono irrevocabili, ogni tentativo di salvare la faccia diventa disperato e passa in secondo piano rispetto all'esigenza di sottrarsi all'inchiesta. La sequenza delle giravolte del ministro, e dei suoi repentini cambi di linea appare impressionante. Il 28 aprile, durante una conferenza stampa, inseguito dalla domanda (solitaria) di un giornalista de Il Fatto, si dichiara sdegnato. “Che cosa ha da replicare alla testimonianza dell'architetto Zampolini?”, fu costretto a urlargli (letteralmente) il nostro Vincenzo Iurillo mentre correva via protetto dalla scorta a Napoli. “Non ho nulla da dichiarare perché non voglio partecipare a questa bruttissima abitudine dei processi mediatici”, rispose il ministro. E ancora: “Sono assolutamente amareggiato e disgustato – aggiunse con una alzata di orgoglio – che il segreto istruttorio fisica sui giornali”. Era iniziata la grande fuga dalla vergogna delle accuse infamanti. “Sono addolorato perché si sta cercando di mettere in mezzo mia figlia”, aggiunse il giorno dopo.Lo stesso giorno, a Il Giornale, consegnò un altro tentativo di mettere una pezza e ostentare sicurezza: “In questa occasione – diceva il ministro – non faccio come nel caso di Biagi, non me ne vado. Altrimenti sembra che mi hanno beccato con il sorcio in bocca”.
Poi solo il 4 maggio, sommerso dalla mole di particolari compromettenti, e scaricato anche dai giornali di centrodestra come Libero e il Giornale (“Chiarisca o si dimetta”, titolarono Feltri e Sallusti) lambito da un'onda di indignazione che arrivava anche dai suoi stessi elettori, Scajola getta la spugna. Si presenta in conferenza stampa con l'aria apparentemente contrita , lo sguardo vitreo che vaga nel vuoto, un moto di indignazione quasi recitato: “Un ministro non può sopportare di abitare in una casa pagata da altri!”. L'uomo forte del Pdl si dimette stringendo i denti: “Mi devo difendere. E per difendermi non posso continuare a fare il ministro”. La coda della conferenza stampa è quasi tragicomica. Il ministro finisce di leggere la sua letterina, si alza con scatto felino e fugge via, mentre i giornalisti protestano perché non hanno avuto la possibilità di fare domande. “Mi devo difendere”. Ma una volta persa la faccia, l'unica difesa possibile, se si esclude la patetica proposta (tecnicamente irrealizzabile) di restituire la casa e revocare l'atto, è limitare i danni, puntare alla prescrizione, sperare nel Tribunale dei ministri (la vendita è stata conclusa mentre era in carica) e nell'immunità parlamentare (è tuttora deputato). Altro particolare grottesco. Nella conferenza stampa del 4 maggio Scajola ribadiva di non essere “neanche indagato”.Ieri, per le esigenze tattiche di cui sopra, il suo avvocato faceva capire che adesso preferirebbe esserlo. Un bel paradosso. Conoscendo il ministro, è possibile che possa essere interrogato come indagato. Magari “a sua insaputa”.
Fonte articolo e foto 'Il Fatto Quotidiano'
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