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di 'Per quel che mi riguarda'

lunedì 19 aprile 2010

POPOLO DELLA LIBERTÀ: Fini, il dado e il cerino di Ida Dominijanni

Rompono o non rompono? Non hanno torto gli intellettuali di Farefuturo quando scrivono per ogni dove che la rottura ormai c’è e che il dado ormai è tratto, quali che siano gli esiti immediati - strappo definitivo o temporaneo rammendo-dello scontro fra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Vero è infatti che, fra punture di spillo, prese di distanza silenziose e dissensi espliciti, il presidente della Camera è infine riuscito a trasformare la sua differenza compatibile con il Cavaliere in una differenza irriducibile. Altro che cofondatori: il partito del predellino di fondatori, e imperatori, ne ha uno solo, e notoriamente chi non è come lui è contro di lui.
Berlusconi del resto, alla faccia delle 48 ore di tempo che aveva fatto finta di prendersi giovedì, ne ha impiegate meno di 24 per mandare a dire a Fini che se vuole andare vada pure, «e se ne assuma tutte le responsabilità»; e si deve probabilmente ai calcoli d’opportunità dei suoi, più che a lui, il pacchetto «distensivo» partorito dal conclave del Pdl, che al presidente della Camera offre un nuovo «accordo forte», una riunione di direzione ogni due mesi e un congresso entro l’anno in cambio della rinuncia alla secessione parlamentare. Il cerino dunque è di nuovo nelle mani di Fini. Che probabilmente accetterà di spegnerlo ancora una volta, magari strappando (sulla carta) qualche promessa sulle riforme o qualche virgola sul programma. La verità è che entrambi, Berlusconi e Fini, fatti due conti devono essersi accorti che, come scriveva il Foglio di ieri, «se litigassero di brutto si farebbero entrambi male, e molto»: mica per buonismo, ma perché un’accelerazione del divorzio, con probabile deriva verso una crisi di governo ed elezioni anticipate, nessuno dei due è in grado di reggerla nell’immediato: non Fini, che non ha né i soldi né i soldati, e nemmeno Berlusconi, che alle regionali ha pur sempre perso due milioni e mezzo di voti. Per non parlare di Bossi, che il federalismo o lo incassa ora o mai più.
Tutto come prima allora? Neanche per idea, perché il dado, appunto, è tratto e la rottura ormai c’è. E dunque se lo strappo sarà rammendato - e tanto più se non lo sarà – due conclusioni si possono comunque tirare, segnano comunque una discontinuità e indirizzano comunque il seguito della legislatura su binari assai diversi da quelli che parevano segnati.
Prima conclusione. Il disegno politico messo in scena da Fini, giusto un anno fa, al congresso di fondazione del Pdl è fallito. Esso consisteva nel tentativo di prefigurare una destra presentabile, liberale e costituzionale, lavorando il Pdl da dentro e smarcandosi dal Cavaliere su singole questioni, dall’immigrazione alla bioetica, scelte apposta per abbozzare un profilo ideologico rinnovato senza disturbare troppo il manovratore. E puntava a raccogliere prima o poi l’eredità di Berlusconi trasformandola, cioè a mettere prima o poi ordine nella transizione italiana dopo la «rivoluzione» berlusconiana. Quel disegno, ora si vede bene, non stava in piedi. Per la natura irriducibilmente monarchica e proprietaria della leaderhip di Berlusconi e per la natura irriducibilmente servile della sua creatura.
Ma anche per la più profonda ragione che se in Italia una destra liberale, costituzionale e europea non c’è mai stata ci dev’essere un motivo, e non basta la buona volontà del think tank finiano per generarla, il campo essendo saldamente occupato dalla destra illiberale, incostituzionale e localista che c’è. Ammesso e non concesso che abbia una qualche prospettiva strategica, quel disegno dunque va rifatto, e non può esentarsi dal passare per una rottura netta, per quanto impervia, con Berlusconi. Invece di spegnerlo, il cerino Fini farebbe meglio a tenerlo acceso, o gli si riaccenderà comunque fra le mani a breve.
Seconda conclusione. Per quanto possa - e non è detto - placare momentaneamente le acque, il «pacchetto distensivo» del Pdl muta le sorti della legislatura. Prende un anno di tempo per scongiurare un esito elettorale immediato, ma lo trasforma in un anno di campagna congressuale e, virtualmente, di campagna elettorale, aprendo i giochi nell’area di centro cui Fini dovrà rivolgersi. Infine, un anno è quanto basta per consentire a Bossi di incassare il federalismo, ma di altre riforme non se ne parlerà, o se ne parlerà soltanto. Basterà un anno per far capire al centrosinistra che urge una scossa, un’accelerazione, un’idea?

Fonte articolo 'Il Manifesto'

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