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di 'Per quel che mi riguarda'

venerdì 16 aprile 2010

Gianfranco senza alternative di Michele Prospero

Sarà vera rottura nel Pdl dopo l’incontro tempestoso tra i due cofondatori? A giorni si vedrà. Il problema vero è però che il partito unico della destra non è mai nato. C’è stata solo una incorporazione forzata della vecchia An dentro una creatura, alquanto sgangherata dal punto di vista organizzativo e confusa nelle idealità, inventata da Berlusconi a suo uso e consumo. Già nel congresso fondativo del Pdl, a Fini era stato riservato un posto secondario tra la banda che accompagnava i vari discorsi con marcette trionfali e la platea investita dalle ossessionanti note di «meno male che Silvio c’è». Anche per la politica ridotta a futile immagine, a leadership vuota che si autocelebra tra le telecamere era in fondo troppo esagerata la pacchiana scenografia dell’evento fondativodel più grande partito italiano.
Dopo aver irriso alla estemporanea mossa del predellino, presentandola come una «comicafinale», il leader di An ha dovuto ingoiare il rospo e accettare l’invito di Berlusconi a scioglierele fila e aderire. Il cavaliere, appena nel novembre del 2007, era un politico disperato perché era miseramente fallito l’assalto al governo Prodi tentato alla cieca mobilitando la piazza e incentivando qualche diserzione al senato. Ma in suo soccorso venne inopinatamente Veltroni che, invece di puntellare il gracile governo dell’unione, intraprese irrituali incontri con Berlusconi per concordare una nuova legge elettorale. A gennaio 2008 il patatrac era ormai compiuto. L’annuncio di Veltroni di voler correre da solo decretò di fatto lo scioglimento delle camere. Una catastrofe per il paese che anche per Fini significò una resa immediata alle condizioni dettate dal cavaliere. Il terzo trionfo di Berlusconi sembrava fornire ad An oltre al bastone dello scioglimento organizzativo anchela carota del governo. Cosa c’è di più solido del cemento del potere? Eppure non è bastata la pura partecipazione alla spartizione delle larghe spoglie del governo.
Nemmeno ha ridimensionato le ambizioni autonome di Fini la circostanza per cui il popolo della destra sente ormai non in lui ma in Berlusconi il proprio caudillo che strattona il palazzo anche quando ne è il capo, che invoca la decisione rapida del leader e spruzza fuoco contro le istituzioni parlamentari e i parrucconi custodi della costituzione. Sul piano dei comportamenti effettivi, il fossato che divide Fini e Berlusconi è davvero incolmabile. E non per mere questioni di stile. Il fatto è che Berlusconi, malgrado la terza conquista di palazzo Chigi, non è mai diventato uno statista, come pure si erano affrettati a certificare alcuni commentatori di Repubblica. E che Fini invece ha intrapreso la sua marcia lungo le istituzioni (all’inizio solo tattica alla fine molto più convinta) che lo ha condotto ad una metamorfosi impressionante sul piano della cultura politica. Sul tema dell’immigrazione, dei diritti civili, della dignità delle istituzioni, della legge elettorale, del semipresidenzialismo l’ex delfino di Almirante parla il linguaggio di una destra liberale che in Italia non c’è mai stata. E proprio questo forse è il suo problema maggiore.
Il tentativo di ridefinire la destra su un terreno più moderno e civile rischia di alimentare una sorta di debole illuminismo di destra che,con i suoi buoni propositi e la sua benvenuta ragionevolezza, si rivela un gracile argine al cospetto di uno straripante populismo che rivendica l’investitura di un capo assoluto e incita alla omogeneità dei territori contro le invasioni straniere che mettono a repentaglio sicurezza e accesso ai residuali diritti di cittadinanza.
Quanto è ampio oggi l’esercito disposto a seguire Fini? Dalle consultazioni regionali, si direbbe non molto. Il rischio che venga colpito dal cieco risentimento del fuoco amico è per questo molto forte. Ma Fini non ha alternative. Se continua a differenziarsi dall’insostenibile plebiscitarismo del cavaliere, senza però andare mai a fondo nelle determinazioni necessarie, rischia di logorarsi e di apparire come una pistola scarica. Se rompe con Berlusconi per mostrare che fa sul serio nelle sue prove di patriottismo costituzionale si immette in una terra sconosciuta con sponde difficili e approdi incerti.

Fonte articolo e vignetta 'Il Manifesto'

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