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di 'Per quel che mi riguarda'

lunedì 29 marzo 2010

Quei 900 miliardi che si frappongono tra Usa e Asia di Loretta Napoleoni

A poco più di un mese dall’apertura dell’Expo mondiale di Shanghai, un evento che simbolicamente dovrebbe sancire l’ingresso della Cina nel club delle nazioni più potenti al mondo, le relazioni diplomatiche tra questo Paese e gli Stati Uniti continuano a deteriorarsi. Anni di delicato lavoro diplomatico rischiano di andare in fumo se nelle prossime settimane non si ricuciono i rapporti tra Washington e Pechino. Nella guerra delle monete che ormai si profila all’orizzonte il primo è intenzionato ad usare l’arma delle tariffe doganali contro il secondo. Ed il protezionismo potrebbe tornare di moda come avvenne nel 1930, quando l’America scelse quella strada per uscire dalla depressione, un sentiero in discesa che consegnò non solo quella nazione ma tutto i mondo nelle grinfie della grande depressione. E come allora la serietà della crisi economica si ripercuote su tutti i settori.
Il braccio di ferro tra Google ed il governo cinese è la punta dell’Iceberg di un processo che vede la Cina imporre condizioni sempre più onerose alle imprese straniere che operano nel Paese. Si tratta di un’ostilità latente che però il capitale occidentale percepisce bene. E come spesso succede, a questa battaglia partecipa anche la stampa occidentale e quella cinese. Sulle pagine del New York Times, Krugman esorta il presidente Obama a condannare apertamente la manipolazione che a suo parere la Cina sta facendo della propria moneta. Gli fanno eco 130 senatori democratici e repubblicani secondo i quali nell’attesissimo rapporto che il Tesoro renderà pubblico il 15 Aprile gli Stati Uniti devono assumere un atteggiamento duro ed intransigente nei confronti della Cina. In Cina economisti autorevoli rispondono per le rime accusando gli Stati Uniti di essere loro i manipolatori del dollaro e di esserlo da almeno quarant’anni, da quando cioè il biglietto verde ha smesso di essere convertibile in oro.
Se questo battibecco propagandistico ed economico non cessa, si rischia di perdere l’obbiettività e di farsi trascinare nella deriva economica. Una mediazione è ancora possibile, ma per ora americani e cinesi non ne vogliono sentir parlare. Gli Stati Uniti potrebbero rimuovere le restrizioni all’esportazione dell’alta tecnologia e di quella strategica in Cina, imposta per paura che venga usata militarmente, e la Cina potrebbe apprezzare la propria moneta pur mantenendola agganciata al dollaro. Con un dollaro più forte per gli americani sarebbe più facile trovare compratori per 745 miliardi di dollari in buoni del tesoro di cui il Paese ha bisogno durante i primi sei mesi del 2010, specialmente adesso che la Cina ha smesso di sottoscrivere il suo debito pubblico. Ma anche la Cina trarrebbe vantaggio da questo accordo: ridurrebbe il surplus della bilancia commerciale, manovra importante per tenere l’inflazione sotto controllo. In Cina ed in tutta l’Asia si mormora che l’ostacolo maggiore per arrivare a quest’accordo di mutuo vantaggio è legato alla politica interna americana. E la decisione del presidente Obama di cancellare per la seconda volta la visita in Indonesia sembra confermarlo. I rapporti con l’Asia possono essere sacrificati se necessario. Specialmente adesso che è stata varata la riforma sanitaria che costerà 900 miliardi di dollari, l’amministrazione deve assecondare le richieste dei falchi repubblicani e democratici nel Congresso. E costoro hanno dietro gli interessi dell’industria americana che, fiaccata dalla crisi, domanda una moneta debole rispetto a quella cinese per rilanciare il Made in Usa.

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