Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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giovedì 8 ottobre 2009
PIETRA TOMBALE SULLA FAVOLA DI REGIME di Ida Dominijanni
Immagine tratta da Il Manifesto)
La promessa di rispettare il verdetto della Corte, spergiurata in tutti i talk show della vigilia, è durata il proverbiale spazio di un mattino. Alle sette della sera la sentenza è già «sconvolgente», e i giudici della Consulta sono già stati iscritti d’ufficio alla schiera delle toghe rosse in perenne assetto da golpe. Lo proclama il premier messo al tappeto, lo argomentano (si fa per dire) i suoi scherani, Alfano Cicchitto Quagliariello. Umberto Bossi, come al solito il più intuitivo di tutti, aveva messo le mani avanti minacciando già in mattinata: «Non si può sfidare l’ira dei popoli».
Eccolo già in funzione, il piano b, quello allestito in caso di bocciatura: screditare la Corte, dividere «il popolo» dalle istituzioni, sollevarlo e indottrinarlo con la storiella che segue. C’era una volta la Costituzione. I padri costituenti, ben conoscendo la fetente casta di magistrati con cui avevano a che fare all’indomani del fascismo, avevano dato sì una grande autonomia al potere giudiziario, ma avevano protetto il legislativo dal fumus persecutionis dei giudici concedendo l’immunità a tutti parlamentari. Poi venne il golpe di Mani pulite, e nel ‘93, complice il Presidente Scalfaro, l’immunità venne cancellata.
Il lodo Alfano è solo una parziale riparazione del danno allora inferto al sereno svolgimento del potere politico, a tutto vantaggio del potere giudiziario. Nonché un timido inizio, solo un timido inizio, della restituzione del potere sovrano al popolo. Il quale sceglie chi governa, lo elegge, lo santifica e vuole vederlo immune dai tribunali e libero dalla legge. Fine della storia. Morale: la Costituzione sono io. Firmato, ovvio, Silvio Berlusconi.
La bocciatura essendo stata più sonora delle più nere previsioni, in serata la storiella si arricchisce di nuove sfumature. La Corte è incoerente e ha teso una trappola pure al Presidente Napolitano. E il popolo ferito nell’onore si vendicherà trasformando le regionali in un plebiscito per l’Imperatore. Manon sono i particolari nuovi che colpiscono. E’ la pertinace insistenza con cui da quindici anni Berlusconi e i suoi ripetono la loro solfa di regime. Secondo la quale viviamo in una democrazia colpita a morte dalla rivoluzione dei giudici del ’92 (e di chi - «i comunisti»- la cavalcò per scalare il governo), non dall’illegalità permanente che ha affondato la prima Repubblica e sta affondando la seconda. E combattiamo una guerra guerreggiata fra chi vuole dare al popolo tutto il potere e chi glielo vuole togliere per darlo invece ai magistrati di ogni rango, dalle procure alla Consulta.
Berlusconi chiama «ritorno alla Costituzione», tramite i suoi lodi, l’alterazione del principio logico numero uno della Costituzione medesima, ovvero il fatto che il potere politico è sottoposto a un doppio vincolo: quello della legittimità popolare, che si esprime con il voto, e quello della legalità, che si esprime nell’osservanza dei limiti posti a tutti, popolo compreso, dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie.
Da cui discende tanto per cominciare che la stagione di Mani pulite, pur con tutti gli eccessi demagigici, forcaioli e antipolitici che dal canto loro non vanno dimenticati, non fu un golpe: fu il tentativo di far valere il principio del controllo di legalità su una classe politica che già allora sguazzava nell’illegalità, anche se al confronto di quella di adesso era fatta di anime sante.
La sentezza della Corte non boccia solo il lodo Alfano: boccia questa favola di regime. Ne smonta definitivamente l’architrave, la pretesa di instaurare una forma di sovranità assoluta sganciata dalla divisione dei poteri e dal controllo di legalità, nutrita solo dal consenso popolare plasmato via tv, elevata a rango monarchico dalla esenzione dal principio di uguaglianza. Essa tuttavia farà ancora molti danni, anzi i danni maggiori li farà, per ritorsione, da ora in poi. Come un pugile suonato, il premier già si alza dal tappeto ricaricandosi con la missione di «salvaguardare l’Italia da questa sinistra che si è impadronita anche della Corte». Come una corte ammaccata, già i suoi fan gli promettono adunate nel ventennale «della caduta dell’Impero del male», che sarebbe il crollo del muro di Berlino. E come un robot addestrato, già il ministro Alfano s’inventa un nuovo conflitto, «fra il premier eletto e il cittadino che deve difendersi nei processi». E’ la nuova trincea, quella del re umiliato e livido per essere stato riportato alla condizione di comune mortale, eguale fra gli eguali.
Fonte articolo
La promessa di rispettare il verdetto della Corte, spergiurata in tutti i talk show della vigilia, è durata il proverbiale spazio di un mattino. Alle sette della sera la sentenza è già «sconvolgente», e i giudici della Consulta sono già stati iscritti d’ufficio alla schiera delle toghe rosse in perenne assetto da golpe. Lo proclama il premier messo al tappeto, lo argomentano (si fa per dire) i suoi scherani, Alfano Cicchitto Quagliariello. Umberto Bossi, come al solito il più intuitivo di tutti, aveva messo le mani avanti minacciando già in mattinata: «Non si può sfidare l’ira dei popoli».
Eccolo già in funzione, il piano b, quello allestito in caso di bocciatura: screditare la Corte, dividere «il popolo» dalle istituzioni, sollevarlo e indottrinarlo con la storiella che segue. C’era una volta la Costituzione. I padri costituenti, ben conoscendo la fetente casta di magistrati con cui avevano a che fare all’indomani del fascismo, avevano dato sì una grande autonomia al potere giudiziario, ma avevano protetto il legislativo dal fumus persecutionis dei giudici concedendo l’immunità a tutti parlamentari. Poi venne il golpe di Mani pulite, e nel ‘93, complice il Presidente Scalfaro, l’immunità venne cancellata.
Il lodo Alfano è solo una parziale riparazione del danno allora inferto al sereno svolgimento del potere politico, a tutto vantaggio del potere giudiziario. Nonché un timido inizio, solo un timido inizio, della restituzione del potere sovrano al popolo. Il quale sceglie chi governa, lo elegge, lo santifica e vuole vederlo immune dai tribunali e libero dalla legge. Fine della storia. Morale: la Costituzione sono io. Firmato, ovvio, Silvio Berlusconi.
La bocciatura essendo stata più sonora delle più nere previsioni, in serata la storiella si arricchisce di nuove sfumature. La Corte è incoerente e ha teso una trappola pure al Presidente Napolitano. E il popolo ferito nell’onore si vendicherà trasformando le regionali in un plebiscito per l’Imperatore. Manon sono i particolari nuovi che colpiscono. E’ la pertinace insistenza con cui da quindici anni Berlusconi e i suoi ripetono la loro solfa di regime. Secondo la quale viviamo in una democrazia colpita a morte dalla rivoluzione dei giudici del ’92 (e di chi - «i comunisti»- la cavalcò per scalare il governo), non dall’illegalità permanente che ha affondato la prima Repubblica e sta affondando la seconda. E combattiamo una guerra guerreggiata fra chi vuole dare al popolo tutto il potere e chi glielo vuole togliere per darlo invece ai magistrati di ogni rango, dalle procure alla Consulta.
Berlusconi chiama «ritorno alla Costituzione», tramite i suoi lodi, l’alterazione del principio logico numero uno della Costituzione medesima, ovvero il fatto che il potere politico è sottoposto a un doppio vincolo: quello della legittimità popolare, che si esprime con il voto, e quello della legalità, che si esprime nell’osservanza dei limiti posti a tutti, popolo compreso, dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie.
Da cui discende tanto per cominciare che la stagione di Mani pulite, pur con tutti gli eccessi demagigici, forcaioli e antipolitici che dal canto loro non vanno dimenticati, non fu un golpe: fu il tentativo di far valere il principio del controllo di legalità su una classe politica che già allora sguazzava nell’illegalità, anche se al confronto di quella di adesso era fatta di anime sante.
La sentezza della Corte non boccia solo il lodo Alfano: boccia questa favola di regime. Ne smonta definitivamente l’architrave, la pretesa di instaurare una forma di sovranità assoluta sganciata dalla divisione dei poteri e dal controllo di legalità, nutrita solo dal consenso popolare plasmato via tv, elevata a rango monarchico dalla esenzione dal principio di uguaglianza. Essa tuttavia farà ancora molti danni, anzi i danni maggiori li farà, per ritorsione, da ora in poi. Come un pugile suonato, il premier già si alza dal tappeto ricaricandosi con la missione di «salvaguardare l’Italia da questa sinistra che si è impadronita anche della Corte». Come una corte ammaccata, già i suoi fan gli promettono adunate nel ventennale «della caduta dell’Impero del male», che sarebbe il crollo del muro di Berlino. E come un robot addestrato, già il ministro Alfano s’inventa un nuovo conflitto, «fra il premier eletto e il cittadino che deve difendersi nei processi». E’ la nuova trincea, quella del re umiliato e livido per essere stato riportato alla condizione di comune mortale, eguale fra gli eguali.
Fonte articolo
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