
Sarà che il 15 ottobre porta male. Quel giorno, ventinove anni fa, Cgil, Cisl e Uil si arrendevano alla Fiat, dopo la «marcia dei 40.000», firmando un accordo scritto personalmente da Cesare Romiti: 23.000 operai in cassa integrazione, fine del sindacato di fabbrica, dominio totale e incontrollato dell’azienda sui lavoratori. Generalizzando un po’ - ma non troppo - era l’inizio dell’Italia da bere, il via libera al modello Canale5, che per singolare coincidenza aveva iniziato a trasmettere da pochi giorni. Ieri, 15 ottobre 2009, Cisl e Uil hanno firmato il loro contratto nazionale dei metalmeccanici dopo aver offerto alla controparte la possibilità di scegliere la piattaforma sindacale più conveniente su cui trattare: per dar corso al «nuovo modello di relazioni sociali» indicato in un precedente accordo - pure separato - con Confindustria e sotto la benedizione del governo Berlusconi. La portata dei due 15 ottobre è diversa, ma la lacerazione odierna ricorda quella d’allora. Se non altro per «contrasto».
Ventinove anni fa le persone più interessate a (e da) quell’intesa vennero consultate solo a giochi fatti, a firma ormai avvenuta. Era un accordo che niente e nessuno poteva mettere in discussione, ma i sindacalisti di allora ebbero almeno la buona creanza di illustrare e far votare quella loro resa: probabilmente imbrogliarono pure un po’ sull’esito, tanto è difficile contare esattamente migliaia di mani alzate in un piazzale sotto la pioggia.Oggi, forse per la volgarità imperante, non c’è nemmeno il rispetto delle «forme»: per i metalmeccanici nessun voto (altroché primarie) tranne, forse, quello (le «secondarie»?) degli iscritti ai sindacati firmatari, quelli meno rappresentativi.
Curiosamente gli stessi che un tempo - da feroci critici dell’assemblearismo e di una cosa chiamata «prevaricazione delle minoranze più attive» - chiedevano a gran voce regole precise e a volte, persino, il referendum: oggi non ne vogliono sentir parlare. Questa, prima ancora del merito, è la cifra del contratto separato: l’impossibilità di conoscere il giudizio degli interessati su quel merito.
Nel 1980 vennero cancellati diritti faticosamente conquistati, sepolta una storia collettiva, violentata la vita di migliaia di donne e uomini: il prezzo dello sviluppo, dissero. Oggi il prezzo della crisi preclude qualcosa di elementare, la possibilità per ciascuno di valutare e giudicare una decisione che lo riguarda. Forse è qualcosa di «primitivo», forse è solo un «preliminare» per la democrazia politica. Ma se quest’ultima è profondamente in crisi, al collasso o ridotta ad «autocrazia elettiva» - per citare Bobbio e dintorni - forse dipende anche dalla politica che governa il mondo del lavoro. Nell’indifferenza che tanti «saggi» gli riservano, nella sua riduzione a «merce muta e inanimata». Cosicchè, se mai trova la parola e si scuote, prende strade sempre più lontane dal consueto e dall’educato rappresentarsi di libertà ad altri riservate.
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