Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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venerdì 16 ottobre 2009
BERLUSCONI E L’ALBUM DI FAMIGLIA di Barbara Spinelli
Propongo di iniziare una conversazione sulla crisi non della democrazia bensì dello Stato italiano.
CARO DIRETTORE, ho letto lo straordinario commento di Bruno Tinti, il 9 ottobre sul Fatto, e vorrei tentare non un risposta alla sua domanda – ci sono domande che somigliano a una chiamata profetica più che a un quesito –ma una conversazione a distanza. Come siamo arrivati fin qui? si chiede Tinti, per concludere: “La domanda non è, non deve essere: “Questo Lodo Alfano è giusto o no?”, ma piuttosto: “Come siamo arrivati a tanto? Dove abbiamo sbagliato?” Penso che siamo arrivati a questo punto – il rispetto delle leggi che diventa secondario, l’in - differenza a dettati costituzionali come l’uguaglianza di fronte alla legge, l’oblio dei sottili equilibri fra pesi e contrappesi su cui si fonda lo Stato–perché l’idea stessa di Stato è come se non avesse più radici nelle nostre menti, come se non fosse parte della nostra identità nazionale.
Più o meno tutti sentono il male e se ne lamentano, ma sulla natura del male si soffermano di rado, preferendo concentrarsi sui suoi effetti: la litigiosità, la disputa. Anche qui, urge la domanda-chiamata: come siamo arrivati a desiderare tregue, pacificazioni, addirittura la fine del conflitto politico, senza chiederci neppure un attimo su cosa gli italiani si stanno dividendo, su quale idea della repubblica, della democrazia, dello Stato, dell’informazione indipendente? Parole come tregua o fine dell’antagonismo occultano quel che succede, e che rende l’Italia un’invalida in Europa. Anche l’unità della nazione, di cui ci si appresta a celebrare il cento cinquantesimo anniversario, è pensata più all'insegna di armistizi verbali e di retoriche nazionali falsamente unanimi che di una seria disamina delle malformazioni italiane. Se la nazione minaccia di disgregarsi, è perché la costruzione dello Stato italiano s’è a un certo punto interrotta, degenerando. È un disfacimento in atto da decenni, che permea la repubblica quasi fin dalla nascita, e di questi tempi è più che mai palese. Le vicende del presidente del Consiglio gettano una luce specialmente cruda su di esso, e stanno producendo una vera mostruosità dottrinale: al postulato di Bruno Tinti (“Oggi, nel nostro Paese, siamo arrivati a discutere seriamente della non applicabilità della legge penale al presidente del Consiglio, cioè a un cittadino cui è affidato un pubblico servizio, probabilmente il più importante che ci sia in un paese democratico. Siamo arrivati a teorizzare che è giusto che questo cittadino possa corrompere giudici, falsificare bilanci, commettere frodi fiscali, e che però non possa essere processato”) si risponde che la legittimità del governante non viene dal rispetto della legge e non è confutabile in caso di reato o sospetto di reato, ma scaturisce esclusivamente e definitivamente dal verdetto delle urne, dall’unzione del popolo. È una legittimazione non molto diversa dall’unzione divina, quando il monarca regnava per diritto di Dio. Il popolo ha sostituito Dio, è lui soltanto che acclama, consacra, e questo dà facoltà al capo di ignorare altre fonti di legittimazione, altri poteri che istituzionalmente son chiamati a vegliare sugli abusi di potere dell’esecutivo e di frenarli se necessario. È una sorta di patto del sangue che viene accampato, fra il leader e la maggioranza del popolo, preminente su ogni altro patto e in particolare sui patti che preesistono la nascita delle singole legislature. Al fondamentalismo teo-cratico si affianca un fondamentalismo non meno intollerante, demo-cratico al massimo grado. Il dèmos, o meglio la maggioranza del dèmos, si erge a Dio.
LA CULTURA D E L L’A N T I - S TATO Il punto è questo: non è Berlusconi soltanto ad aver corrotto in tal modo la democrazia liberale, dando forma alla democrazia estremista in cui viviamo. Una democrazia nella quale il popolo esercita una sovranità assoluta, non condivisa, refrattaria a controlli da parte di poteri indipendenti: giudici o Corte costituzionale, presidente della Repubblica, organi di garanzia o mezzi di comunicazione. Non è il fondatore di Forza Italia ad aver creato questa cultura dell’anti-Stato, che corrode l’Italia e la rovina. E finché l’esame critico dell’Italia non investirà in maniera approfondita e libera le radici non berlusconiane del berlusconismo, la stessa opposizione sarà disarmata e sterile. La cultura dell’anti-Stato è antica, nella storia dell’Italia postbellica. Nasce come frutto avvelenato della lotta al fascismo e al modo in cui quest’ultimo ha pensato e guidato lo Stato: esaltandone il peso ipertrofico, e al tempo stesso pervertendo la sua vocazione a essere stato di diritto. Questa torbida combinazione è all’origine del fatto che l’antifascismo si sia in gran parte nutrito di anti-Stato, di anti-patria, giungendo fino a sospettare quasi istintivamente l’esistenza di malvagità nascoste nel senso e nel servizio dello Stato. È un fenomeno che i costituenti nella Germania postbellica hanno accuratamente scansato, ben conoscendo i disastri derivanti dal potere eccessivo del popolo (rifiuto dei referendum) e dall’estrema debolezza dei governi e dell’equilibrio dei poteri nella Repubblica di Weimar. Malgrado un’esemplare costituzione, le classi politiche e imprenditoriali italiane hanno tratto la lezione opposta: i governi andavano indeboliti e tenuti al laccio in vari modi, con effetti rovinosi sulle strutture statuali, sulla loro tetenuta e sul loro controllo del territorio. Per molto tempo la forma Stato, nel partito comunista, era vista come proprietà e terra di conquista dei padroni borghesi. La borghesia imprenditoriale e finanziaria, a sua volta, ha prodotto lungo i decenni personaggi che verso lo Stato nutrivano una sfiducia radicale, desiderandone spesso la sovversione: Cefis, Calvi, Gelli, Sindona. Senza essere un sovversivo, Enrico Cuccia giocò spesso le sue partite a scacchi “senza il senso dello Stato, lui banchiere sommo dello Stato” (Corrado Stajano, Un eroe borghese, Einaudi 1991, p. 210). Alcuni di questi (Cefis, Cuccia) si erano formati nella Resistenza. Negli anni ‘60-’70 l’anti-Stato diventa cultura ancor più diffusa, pervasiva. In nome dell’anti-Stato si formano numerosi gruppuscoli del ‘68, a cominciare da Lotta Continua, e anche gruppi della destra violenta e della mafia che patteggiano azioni criminose con elementi sovversivi presenti nel potere politico e nei servizi. Lo Stato è da abbattere in quanto soggetto congenitamente criminoso, prima negli articoli di Lotta Continua poi nei comunicati brigatisti. È così fino al rapimento Moro, nel 1978. Lo slogan più malefico di quell’anno –Né con lo Stato né con le Br–rappresentò il culmine del disfacimento e venne purtroppo coniato da un uomo-simbolo della lotta anti-mafia quale Leonardo Sciascia (in seguito lo scrittore si corresse, disse che non intendeva lo Stato in sé ma “quello Stato”. Tuttavia il maleficio restò).
Fonte articolo
CARO DIRETTORE, ho letto lo straordinario commento di Bruno Tinti, il 9 ottobre sul Fatto, e vorrei tentare non un risposta alla sua domanda – ci sono domande che somigliano a una chiamata profetica più che a un quesito –ma una conversazione a distanza. Come siamo arrivati fin qui? si chiede Tinti, per concludere: “La domanda non è, non deve essere: “Questo Lodo Alfano è giusto o no?”, ma piuttosto: “Come siamo arrivati a tanto? Dove abbiamo sbagliato?” Penso che siamo arrivati a questo punto – il rispetto delle leggi che diventa secondario, l’in - differenza a dettati costituzionali come l’uguaglianza di fronte alla legge, l’oblio dei sottili equilibri fra pesi e contrappesi su cui si fonda lo Stato–perché l’idea stessa di Stato è come se non avesse più radici nelle nostre menti, come se non fosse parte della nostra identità nazionale.
Più o meno tutti sentono il male e se ne lamentano, ma sulla natura del male si soffermano di rado, preferendo concentrarsi sui suoi effetti: la litigiosità, la disputa. Anche qui, urge la domanda-chiamata: come siamo arrivati a desiderare tregue, pacificazioni, addirittura la fine del conflitto politico, senza chiederci neppure un attimo su cosa gli italiani si stanno dividendo, su quale idea della repubblica, della democrazia, dello Stato, dell’informazione indipendente? Parole come tregua o fine dell’antagonismo occultano quel che succede, e che rende l’Italia un’invalida in Europa. Anche l’unità della nazione, di cui ci si appresta a celebrare il cento cinquantesimo anniversario, è pensata più all'insegna di armistizi verbali e di retoriche nazionali falsamente unanimi che di una seria disamina delle malformazioni italiane. Se la nazione minaccia di disgregarsi, è perché la costruzione dello Stato italiano s’è a un certo punto interrotta, degenerando. È un disfacimento in atto da decenni, che permea la repubblica quasi fin dalla nascita, e di questi tempi è più che mai palese. Le vicende del presidente del Consiglio gettano una luce specialmente cruda su di esso, e stanno producendo una vera mostruosità dottrinale: al postulato di Bruno Tinti (“Oggi, nel nostro Paese, siamo arrivati a discutere seriamente della non applicabilità della legge penale al presidente del Consiglio, cioè a un cittadino cui è affidato un pubblico servizio, probabilmente il più importante che ci sia in un paese democratico. Siamo arrivati a teorizzare che è giusto che questo cittadino possa corrompere giudici, falsificare bilanci, commettere frodi fiscali, e che però non possa essere processato”) si risponde che la legittimità del governante non viene dal rispetto della legge e non è confutabile in caso di reato o sospetto di reato, ma scaturisce esclusivamente e definitivamente dal verdetto delle urne, dall’unzione del popolo. È una legittimazione non molto diversa dall’unzione divina, quando il monarca regnava per diritto di Dio. Il popolo ha sostituito Dio, è lui soltanto che acclama, consacra, e questo dà facoltà al capo di ignorare altre fonti di legittimazione, altri poteri che istituzionalmente son chiamati a vegliare sugli abusi di potere dell’esecutivo e di frenarli se necessario. È una sorta di patto del sangue che viene accampato, fra il leader e la maggioranza del popolo, preminente su ogni altro patto e in particolare sui patti che preesistono la nascita delle singole legislature. Al fondamentalismo teo-cratico si affianca un fondamentalismo non meno intollerante, demo-cratico al massimo grado. Il dèmos, o meglio la maggioranza del dèmos, si erge a Dio.
LA CULTURA D E L L’A N T I - S TATO Il punto è questo: non è Berlusconi soltanto ad aver corrotto in tal modo la democrazia liberale, dando forma alla democrazia estremista in cui viviamo. Una democrazia nella quale il popolo esercita una sovranità assoluta, non condivisa, refrattaria a controlli da parte di poteri indipendenti: giudici o Corte costituzionale, presidente della Repubblica, organi di garanzia o mezzi di comunicazione. Non è il fondatore di Forza Italia ad aver creato questa cultura dell’anti-Stato, che corrode l’Italia e la rovina. E finché l’esame critico dell’Italia non investirà in maniera approfondita e libera le radici non berlusconiane del berlusconismo, la stessa opposizione sarà disarmata e sterile. La cultura dell’anti-Stato è antica, nella storia dell’Italia postbellica. Nasce come frutto avvelenato della lotta al fascismo e al modo in cui quest’ultimo ha pensato e guidato lo Stato: esaltandone il peso ipertrofico, e al tempo stesso pervertendo la sua vocazione a essere stato di diritto. Questa torbida combinazione è all’origine del fatto che l’antifascismo si sia in gran parte nutrito di anti-Stato, di anti-patria, giungendo fino a sospettare quasi istintivamente l’esistenza di malvagità nascoste nel senso e nel servizio dello Stato. È un fenomeno che i costituenti nella Germania postbellica hanno accuratamente scansato, ben conoscendo i disastri derivanti dal potere eccessivo del popolo (rifiuto dei referendum) e dall’estrema debolezza dei governi e dell’equilibrio dei poteri nella Repubblica di Weimar. Malgrado un’esemplare costituzione, le classi politiche e imprenditoriali italiane hanno tratto la lezione opposta: i governi andavano indeboliti e tenuti al laccio in vari modi, con effetti rovinosi sulle strutture statuali, sulla loro tetenuta e sul loro controllo del territorio. Per molto tempo la forma Stato, nel partito comunista, era vista come proprietà e terra di conquista dei padroni borghesi. La borghesia imprenditoriale e finanziaria, a sua volta, ha prodotto lungo i decenni personaggi che verso lo Stato nutrivano una sfiducia radicale, desiderandone spesso la sovversione: Cefis, Calvi, Gelli, Sindona. Senza essere un sovversivo, Enrico Cuccia giocò spesso le sue partite a scacchi “senza il senso dello Stato, lui banchiere sommo dello Stato” (Corrado Stajano, Un eroe borghese, Einaudi 1991, p. 210). Alcuni di questi (Cefis, Cuccia) si erano formati nella Resistenza. Negli anni ‘60-’70 l’anti-Stato diventa cultura ancor più diffusa, pervasiva. In nome dell’anti-Stato si formano numerosi gruppuscoli del ‘68, a cominciare da Lotta Continua, e anche gruppi della destra violenta e della mafia che patteggiano azioni criminose con elementi sovversivi presenti nel potere politico e nei servizi. Lo Stato è da abbattere in quanto soggetto congenitamente criminoso, prima negli articoli di Lotta Continua poi nei comunicati brigatisti. È così fino al rapimento Moro, nel 1978. Lo slogan più malefico di quell’anno –Né con lo Stato né con le Br–rappresentò il culmine del disfacimento e venne purtroppo coniato da un uomo-simbolo della lotta anti-mafia quale Leonardo Sciascia (in seguito lo scrittore si corresse, disse che non intendeva lo Stato in sé ma “quello Stato”. Tuttavia il maleficio restò).
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