Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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martedì 22 settembre 2009
LE PAROLE VIETATE di Gabriele Polo
In Italia la giornata internazionale della pace è stata celebrata da sei bare in un’antica basilica romana. Attorno, un triste impasto di sentimenti, dolore e retorica. Dalla tenerezza di un bimbo biondo alla durezza di un urlo guerriero: estremi incompatibili, conviventi nell’ambiguità del mestiere delle armi, che mette in gioco vite dichiarando di farlo a fin di bene.
La scena dei funerali di stato per i caduti in guerra si ripete sempre con un identico copione, intrecciando sentimenti veri e frasi d’occasione che lacerano il "popolo-spettatore": il pianto per la morte delle persone in carne e ossa e la celebrazione degli eroi in missione, la perdita dell’essere umano e la consolazione della medaglia. E’ sempre così. Ma sempre, sullo sfondo, rimane la domanda del "perché", la «giustificazione» che mai può risolvere il dramma di chi è più vicino a chi cade, ma che può convincere gli altri. Quella ricerca di consenso che, a volte, le guerre persino le provoca e su cui i governi si giocano tutto.
Il perché dell’Afghanistan si è un po’ perso per strada, dall’iniziale operazione contro i responsabili dell’11 settembre - con relativi discorsi su democrazia e diritti umani da esportare - fino all’attuale sostegno alle truffaldine manovre - elettorali emercantili - delle élite di Kabul. Di più, per quanto riguarda la missione italiana, c’è un «cosa facciamo lì» fatto di bugie e ossimori: una guerra che non può essere chiamata guerra, un’operazione d’assistenza alle popolazioni civili fatta con le armi in mano. E mentre Obama arriva a non dar per scontate né la portata né - persino - la finalità della guerra iniziata da Bush, qui da noi siamo nella confusione più totale. Al punto da far perdere il senso a ogni cosa, persino al vocabolario: è vietato pronunciar la parola guerra, si abusa liberamente del termine pace fino a farne un espediente retorico. L’impasto da sentimentale diventa semantico e copre il vuoto della politica. Ma fino a che punto, fino a quante vittime? Fino a quando può ancora reggere la giustificazione - la stessa proposta da Bush - di portare il conflitto «lontano da casa nostra»? Così nell’ambiguità della «guerra impronunciabile» il nostro fronte interno si incrina. Non è tanto il leghismo delle piccole patrie padane di Bossi contro il nazionalismo della grande patria di La Russa, né «l’italica viltà» contro cui un tempo si scagliava Mussolini; non sono nemmeno le quinte colonne dell’integralismo che si infiltrano tra noi e cui la Santanché vorrebbe strappare il velo. E’ il venire in luce di una politica irrisolta, che si è nascosta per anni dietro la generosità del «buon soldato italiano», con i suoi reparti genieri, i suoi ospedali da campo, le sue caramelle per bambini. Ed è un problema che ricade addosso alle direzioni politiche: al populismo leghista che se la cava annunciando ritirate che non pretenderà, al declinante berlusconismo dai neologismi che producono immobilismo, al «rispetto degli impegni internazionali proprio di un grande paese» che unisce ex fascisti ed ex comunisti. Tutti fermi nel proprio vuoto affermare, tutti incapaci di declinare quella trattativa con il nemico di cui da qualche anno si parla, ma che non inizia mai. Eppure ciò che accade a Washington (nel bene) e a Kabul (nel male), potrebbe aiutare la politica del nostro piccolo paese. Ma per farlo bisogna ammettere una verità e dar vita a un proposito: c’è una guerra in corso, bisogna trattare la pace.
Fonte articolo
La scena dei funerali di stato per i caduti in guerra si ripete sempre con un identico copione, intrecciando sentimenti veri e frasi d’occasione che lacerano il "popolo-spettatore": il pianto per la morte delle persone in carne e ossa e la celebrazione degli eroi in missione, la perdita dell’essere umano e la consolazione della medaglia. E’ sempre così. Ma sempre, sullo sfondo, rimane la domanda del "perché", la «giustificazione» che mai può risolvere il dramma di chi è più vicino a chi cade, ma che può convincere gli altri. Quella ricerca di consenso che, a volte, le guerre persino le provoca e su cui i governi si giocano tutto.
Il perché dell’Afghanistan si è un po’ perso per strada, dall’iniziale operazione contro i responsabili dell’11 settembre - con relativi discorsi su democrazia e diritti umani da esportare - fino all’attuale sostegno alle truffaldine manovre - elettorali emercantili - delle élite di Kabul. Di più, per quanto riguarda la missione italiana, c’è un «cosa facciamo lì» fatto di bugie e ossimori: una guerra che non può essere chiamata guerra, un’operazione d’assistenza alle popolazioni civili fatta con le armi in mano. E mentre Obama arriva a non dar per scontate né la portata né - persino - la finalità della guerra iniziata da Bush, qui da noi siamo nella confusione più totale. Al punto da far perdere il senso a ogni cosa, persino al vocabolario: è vietato pronunciar la parola guerra, si abusa liberamente del termine pace fino a farne un espediente retorico. L’impasto da sentimentale diventa semantico e copre il vuoto della politica. Ma fino a che punto, fino a quante vittime? Fino a quando può ancora reggere la giustificazione - la stessa proposta da Bush - di portare il conflitto «lontano da casa nostra»? Così nell’ambiguità della «guerra impronunciabile» il nostro fronte interno si incrina. Non è tanto il leghismo delle piccole patrie padane di Bossi contro il nazionalismo della grande patria di La Russa, né «l’italica viltà» contro cui un tempo si scagliava Mussolini; non sono nemmeno le quinte colonne dell’integralismo che si infiltrano tra noi e cui la Santanché vorrebbe strappare il velo. E’ il venire in luce di una politica irrisolta, che si è nascosta per anni dietro la generosità del «buon soldato italiano», con i suoi reparti genieri, i suoi ospedali da campo, le sue caramelle per bambini. Ed è un problema che ricade addosso alle direzioni politiche: al populismo leghista che se la cava annunciando ritirate che non pretenderà, al declinante berlusconismo dai neologismi che producono immobilismo, al «rispetto degli impegni internazionali proprio di un grande paese» che unisce ex fascisti ed ex comunisti. Tutti fermi nel proprio vuoto affermare, tutti incapaci di declinare quella trattativa con il nemico di cui da qualche anno si parla, ma che non inizia mai. Eppure ciò che accade a Washington (nel bene) e a Kabul (nel male), potrebbe aiutare la politica del nostro piccolo paese. Ma per farlo bisogna ammettere una verità e dar vita a un proposito: c’è una guerra in corso, bisogna trattare la pace.
Fonte articolo
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