Naturalmente, sulla veridicità della sequenza ricostruita à la Feltri non si trova su tutta la stampa una sola conferma: se la protesta dell’onorevole Santanché fosse davvero pacifica o se viceversa, come sostiene la comunità islamica, fosse una provocazione bella e buona con tanto di turbativa di culto, non è dato saperlo in base alle testimonianze. Quello che invece è finalmente chiaro è come l’onorevole intende portare avanti la sua «battaglia per la libertà delle islamiche». Presentandosi a una festa religiosa scortata da una decina (altri scrivono una trentina) di uomini, per esempio. Invocando contro l’uso del burqa una legge emessa con motivazioni (controversissime) di ordine pubblico, come se fra chi si copre il viso per - poniamo - lanciare una bomba e rendersi irriconoscibile e chi se lo copre perché costretta da una consuetudine disumana non ci fosse nessuna differenza. Proponendo di elaborare, noi europei, una carta dei diritti delle islamiche che "sancisca il rispetto dei nostri valori", compreso, si suppone, il diritto a prostituirsi per l’ormai famoso divertimento dell’imperatore. Alzando il livello dello scontro di civiltà fra Occidente e Islam nelle nostre città e nei nostri quartieri. E incoronandosi liberatrice delle altre, che «non osano ribellarsi, quindi dobbiamo farlo noi per loro».
Lo schema è quello, pari pari, delle guerre in Afghanistan e in Iraq: là si esporta democrazia con le bombe, qua si esportano diritti femminili con le incursioni virilmente scortate nei luoghi di culto (del resto, quelle guerre furono legittimate anche in base a questi diritti). Nell’un caso e nell’altro, in nome dell’universalismo. Conosciamo l’antifona. Quello che non sapevamo, è che tanta professione di fede nell’universalismo dei diritti e nella solidarietà femminile potesse valere per le diverse ma non per le simili: qualcuno ricorderà che l’onorevole in questione è la stessa che si prestò, su "Libero" allora diretto dal solito Feltri, alla lapidazione di Veronica Lario tramite «rivelazione» della sua presunta tresca con una body guard. E qui finisce la santificazione e martirizzazione dell’onorevole. Quello che non finisce invece è il compianto per l’assassinio di Sanaa Dafani per mano di suo padre, nonché l’esterrefazione per la dichiarazione (spontanea? obbligata? estorta?) di sua madre, disposta a perdonare il marito colpevolizzando la figlia e il fidanzato della figlia, reo di essere italiano e cattolico. Anche qui, come ha già scritto Manuela Cartosio venerdì scorso, il copione delle reazioni si ripete, ricalcato sull’analogo caso di Hina Saleem. Mi ripeto anch’io dicendo che la «mostruosità» del padre di Sanaa è pari a quella dei padri, mariti, fidanzati di casa nostra che ogni giorno massacrano figlie, mogli, fidanzate ed ex fidanzate riempiendo le statistiche della cosiddetta «violenza domestica» sulle donne; e che l’essere marocchino e musulmano non è né un’attenuante né un’aggravante.
Ha ragione però Manuela quando dice che questo non ci esonera dalla ricerca di un di più di vicinanza alle immigrate che subiscono la pressione incrociata della violenza di sesso, dell’ossessione identitaria delle loro comunità, dello stress culturale. Mentre il Berlusconi- gate ci sospinge a combattere sul fronte della mercificazione organizzata del corpo femminile «liberato», altri corpi femminili minacciati ci chiamano a un confronto e a uno scambio. Ma non con le provocazioni, non con le leggi di ordine pubblico, non con la spocchia malriposta della superiorità occidentale.
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