Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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mercoledì 23 settembre 2009
Il diritto di morire, intervista a Stefano Rodotà di Eleonora Martini
È ripresa ieri, alla camera, la discussione sul testamento biologico.
Professor Stefano Rodotà, torniamo un momento sulla sentenza del Tar del Lazio che qualche giorno fa si è pronunciato a proposito della direttiva con la quale nel dicembre 2008 il ministro del welfare Sacconi tentò di impedire che si compisse la volontà di Eluana Englaro. Su questo pronunciamento del Tar ci sono state molte polemiche e se per alcuni si è trattata di una bocciatura della direttiva, per il governo invece è stata confermata l’impostazione data dal ministero. Lei cosa ne pensa?
La verità è che questa sentenza chiarisce che siamo di fronte ad una questione che riguarda i diritti fondamentali della persona, quello di rifiutare o no le cure. Tanto è vero che stabilisce la competenza nel giudice ordinario, non quello amministrativo. E ricorda che già la Corte di cassazione, nella famosa sentenza Englaro, aveva stabilito esplicitamente che alimentazione e idratazione sono trattamenti medici e quindi, come tali, rinunciabili. Ma il punto di partenza, oggi, è rappresentato dalla sentenza della Corte costituzionale 438/2008 nella quale si afferma il diritto del paziente al "consenso informato" e si ricorda che questo, a sua volta, è la sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello alla salute e quello all’autodeterminazione. Quest’ultimo diritto si poteva desumere anche prima, ma qui la Corte costituzionale lo dice in modo esplicito. E allora, se diciamo che una persona ha un diritto fondamentale, vuol dire che le limitazioni legali – ammesso che siano possibili – devono avere un fondamento assolutamente certo. Di fronte a un’incertezza, a un dubbio, prevale l’interpretazione che lascia l’ampiezza massima a questo diritto fondamentale. Il legislatore non può pretendere di farsi scienziato o medico, e non può in una materia così altamente controversa legiferare in modo tale da ferire un diritto come quello all’autodeterminazione. Insomma, come stabiliscono le ultime tre righe dell’articolo 32 della Costituzione, neanche il Parlamento all’unanimità potrebbe imporre a qualcuno qualcosa che violi il rispetto della persona umana.
In Germania, dopo sei anni di discussioni, si è giunti a una legge che ammette la possibilità di rifiutare anche l’idratazione e l’alimentazione forzate. In qualunque momento e non solo in punto di morte. Tutt’altra aria, no?
Nella nuova legge tedesca non solo si ritiene che questi siano trattamenti e quindi rinunciabili, ma si parla anche – usano esattamente questa espressione – di «ultra-attività del principio di autodeterminazione». Che cosa vuol dire? Si riconosce che il principio di autodeterminazione è valido anche in fasi della vita nelle quali la persona può non essere più capace di esprimersi. In quei momenti, cioè, in cui è utile il testamento biologico, strumento che alcuni in Italia contestano dicendo che non si può considerare valida la volontà espressa dal paziente precedentemente, in un momento e in un contesto completamente diversi.
Anche in questo campo, dunque, torna utile il "Festival del Diritto" che si apre domani a Piacenza e il cui programma – da lei curato – è tutto incentrato sul rapporto pubblico/privato. Dove ne tracciamo il confine, parlando di temi di fine vita?
Intanto partiamo dal fatto che non c’è un vuoto normativo, come molti affermano. Se il rifiuto di cure, come quello all’autodeterminazione, appartiene ai diritti della persona, non c’è bisogno di riaffermarlo con una legge. Se la Camera approvasse il testo Calabrò, questi diritti già riconosciuti verrebbero in qualche modo revocati. In maniera incostituzionale. Il pubblico – il potere politico e quello legislativo – non può operare in modo tale da sostituire le proprie decisioni alle decisioni libere dell’interessato. Questo è un passaggio essenziale: il legislatore si deve fermare davanti alla persona umana.
Questo vuol dire che il pubblico deve rimanere sempre fuori dalla sfera del fine vita?
Se si vogliono imporre determinati valori, restringendo in questo modo il diritto all’autodeterminazione, allora sì: c’è un limite invalicabile. Però, proprio perché si tratta di decisioni che vanno prese in piena libertà, c’è un’area invece in cui l’intervento del pubblico non solo è possibile ma anzi necessario.
Un esempio?
La legge appena approvata dalla Camera sulle terapie antidolore e le cure palliative. Ecco, questo è il tipo di intervento che il pubblico deve fare: io devo poter essere libero di decidere se proseguire la mia vita. Libero, per esempio, dal condizionamento che mi può venire da un dolore drammatico che non sono in condizione di poter lenire perché c’è una serie di norme – come quelle sulle sostanze stupefacenti – che mi impediscono di usare farmaci oppiacei o a base di cannabis. Il pubblico, allora, deve intervenire per permettermi di esercitare in piena libertà il mio diritto a scegliere se continuare a vivere – senza dolore – o morire dignitosamente
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Professor Stefano Rodotà, torniamo un momento sulla sentenza del Tar del Lazio che qualche giorno fa si è pronunciato a proposito della direttiva con la quale nel dicembre 2008 il ministro del welfare Sacconi tentò di impedire che si compisse la volontà di Eluana Englaro. Su questo pronunciamento del Tar ci sono state molte polemiche e se per alcuni si è trattata di una bocciatura della direttiva, per il governo invece è stata confermata l’impostazione data dal ministero. Lei cosa ne pensa?
La verità è che questa sentenza chiarisce che siamo di fronte ad una questione che riguarda i diritti fondamentali della persona, quello di rifiutare o no le cure. Tanto è vero che stabilisce la competenza nel giudice ordinario, non quello amministrativo. E ricorda che già la Corte di cassazione, nella famosa sentenza Englaro, aveva stabilito esplicitamente che alimentazione e idratazione sono trattamenti medici e quindi, come tali, rinunciabili. Ma il punto di partenza, oggi, è rappresentato dalla sentenza della Corte costituzionale 438/2008 nella quale si afferma il diritto del paziente al "consenso informato" e si ricorda che questo, a sua volta, è la sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello alla salute e quello all’autodeterminazione. Quest’ultimo diritto si poteva desumere anche prima, ma qui la Corte costituzionale lo dice in modo esplicito. E allora, se diciamo che una persona ha un diritto fondamentale, vuol dire che le limitazioni legali – ammesso che siano possibili – devono avere un fondamento assolutamente certo. Di fronte a un’incertezza, a un dubbio, prevale l’interpretazione che lascia l’ampiezza massima a questo diritto fondamentale. Il legislatore non può pretendere di farsi scienziato o medico, e non può in una materia così altamente controversa legiferare in modo tale da ferire un diritto come quello all’autodeterminazione. Insomma, come stabiliscono le ultime tre righe dell’articolo 32 della Costituzione, neanche il Parlamento all’unanimità potrebbe imporre a qualcuno qualcosa che violi il rispetto della persona umana.
In Germania, dopo sei anni di discussioni, si è giunti a una legge che ammette la possibilità di rifiutare anche l’idratazione e l’alimentazione forzate. In qualunque momento e non solo in punto di morte. Tutt’altra aria, no?
Nella nuova legge tedesca non solo si ritiene che questi siano trattamenti e quindi rinunciabili, ma si parla anche – usano esattamente questa espressione – di «ultra-attività del principio di autodeterminazione». Che cosa vuol dire? Si riconosce che il principio di autodeterminazione è valido anche in fasi della vita nelle quali la persona può non essere più capace di esprimersi. In quei momenti, cioè, in cui è utile il testamento biologico, strumento che alcuni in Italia contestano dicendo che non si può considerare valida la volontà espressa dal paziente precedentemente, in un momento e in un contesto completamente diversi.
Anche in questo campo, dunque, torna utile il "Festival del Diritto" che si apre domani a Piacenza e il cui programma – da lei curato – è tutto incentrato sul rapporto pubblico/privato. Dove ne tracciamo il confine, parlando di temi di fine vita?
Intanto partiamo dal fatto che non c’è un vuoto normativo, come molti affermano. Se il rifiuto di cure, come quello all’autodeterminazione, appartiene ai diritti della persona, non c’è bisogno di riaffermarlo con una legge. Se la Camera approvasse il testo Calabrò, questi diritti già riconosciuti verrebbero in qualche modo revocati. In maniera incostituzionale. Il pubblico – il potere politico e quello legislativo – non può operare in modo tale da sostituire le proprie decisioni alle decisioni libere dell’interessato. Questo è un passaggio essenziale: il legislatore si deve fermare davanti alla persona umana.
Questo vuol dire che il pubblico deve rimanere sempre fuori dalla sfera del fine vita?
Se si vogliono imporre determinati valori, restringendo in questo modo il diritto all’autodeterminazione, allora sì: c’è un limite invalicabile. Però, proprio perché si tratta di decisioni che vanno prese in piena libertà, c’è un’area invece in cui l’intervento del pubblico non solo è possibile ma anzi necessario.
Un esempio?
La legge appena approvata dalla Camera sulle terapie antidolore e le cure palliative. Ecco, questo è il tipo di intervento che il pubblico deve fare: io devo poter essere libero di decidere se proseguire la mia vita. Libero, per esempio, dal condizionamento che mi può venire da un dolore drammatico che non sono in condizione di poter lenire perché c’è una serie di norme – come quelle sulle sostanze stupefacenti – che mi impediscono di usare farmaci oppiacei o a base di cannabis. Il pubblico, allora, deve intervenire per permettermi di esercitare in piena libertà il mio diritto a scegliere se continuare a vivere – senza dolore – o morire dignitosamente
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