
È come se le cose stessero andando al contrario di come la natura vorrebbe. Ma si potrebbe dire che qualche cosa di analogo e altrettanto drammatico stia succedendo in altre parti del mondo. L'altro giorno, un drone (un robot volante con certe capacità decisionali statunitense) ha sbagliato bersaglio e ha ucciso 60 partecipanti a un funerale in Pakistan. Da tempo si lavora, negli Usa, nella ricerca sulla cosiddetta “cyberwar” (la guerra computerizzata che dovrebbe annullare la mortalità militare, a tutto danno, pare, di quella civile), ma i risultati sono fallimentari, e ci fanno dubitare che certi tipi di ricerca siano sensati. Non ha più molto senso, infatti, rubricare questi eventi come “errori” o danni collaterali, non perché non siano effettivamente tali, ma perché in gioco è ovviamente (sia in Iran sia in Pakistan) la concezione della pace, dell'ordine e del potere che portiamo avanti: quando su una strada avvengono troppi incidenti, interveniamo con una nuova limitazione di velocità; non ci mettiamo a studiare automobili più potenti che comunque salvino la vita al guidatore.
Tre giorni fa, più di 60 sono stati i morti in un attentato a Bagdhad, contro la comunità sciita; nei tre giorni precedenti erano morte in attentati altre 100 persone: come dire, sopravvivere a Bagdhad è un puro caso, ma la coalizione occidentale vi è presente da quasi sette anni! Una cosa è chiara: dobbiamo aprire un grande dibattito planetario sul rapporto tra politica e violenza.
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