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di 'Per quel che mi riguarda'

martedì 4 gennaio 2011

Tutti uguali (in Israele) di Marco Travaglio

Casomai i giudici della Consulta necessitassero di illuminazioni in vista della sentenza sul legittimo impedimento, suggeriamo la lettura delle ultime cronache da Israele, dove l’ex presidente della Repubblica Moshe Katzav (Likud, centrodestra) è stato appena condannato per stupro e molestie sessuali su nove impiegate del suo ufficio durante il suo mandato, dal 2000 al 2007. Le indagini sono durate 4 anni, il processo un anno e mezzo: l’ex capo dello Stato s’è difeso gridando al complotto politico-mediatico e alla persecuzione per motivi religiosi (in quanto ebreo sefardita), ma s’è ben guardato dal dire una parola contro i giudici, che alla fine hanno creduto alle sue accusatrici e ai riscontri portati dalla polizia. E che ora dovranno quantificare la pena: Katzav rischia 16 anni di reclusione, che sconterà in galera. A questo punto qualcuno (italiano, s’intende) si porrà alcune domande, tratte dal consueto repertorio che accompagna (in Italia, s’intende) i processi ai politici. Come ha potuto Katzav svolgere serenamente le sue funzioni, dividendosi fra il palazzo presidenziale e l’aula di tribunale? Come hanno osato i giudici calpestare il primato della politica e sostituirsi al popolo? Com’è possibile che l’uomo più potente d’Israele non fosse coperto dall’immunità che (come si racconta in Italia, s’intende) in tutte le democrazie protegge le alte cariche per metterle al riparo dalle incursioni giudiziarie? Le risposte sono semplici, quasi disarmanti. Nel 2007, quando finì sotto inchiesta, Katzav poteva avvalersi dell’immunità che copre il capo dello Stato per i delitti connessi alle funzioni fino al termine del mandato. E restare al suo posto, magari invocando la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Invece, forse perché gli veniva da ridere a sostenere che stuprare segretarie rientri tra le funzioni presidenziali, forse per un soprassalto di dignità, preferì dimettersi a pochi mesi dalla scadenza naturale. Al suo posto il Parlamento elesse un esponente dell’opposizione, il laburista Shimon Peres. Katzav affrontò l’incriminazione e poi il processo come un normale cittadino. Per evitare il carcere, si dichiarò colpevole di accuse minori, altrimenti l’avrebbero pure arrestato. Ora, insieme alla condanna (non solo per i reati sessuali, ma pure per le menzogne raccontate ai giudici, che in Italia sono un diritto della difesa, mentre in Israele costituiscono reato di “ostruzione della giustizia”), s’è visto ritirare il passaporto: deve tenersi a disposizione, perché appena sarà fissata la pena, finirà in carcere. Di lì potrà fare appello nel secondo e ultimo grado di giudizio: la Corte suprema. Che raramente riforma le sentenze di primo grado. Ricapitolando: in Israele non c’è immunità automatica né legittimo impedimento per nessun’alta carica dello Stato, nemmeno per reati commessi durante il mandato e connessi a esso (due anni fa anche il premier Ehud Olmert, inquisito per presunti finanziamenti illeciti, lasciò il governo per sottoporsi alla giustizia e al suo posto fu eletto il suo avversario Benny Netaniahu). Figurarsi per quelli commessi da un premier prima e al di fuori delle funzioni (come nel caso B.). Commento del premier Netaniahu, compagno di partito di Katzav: “E’ un giorno molto triste, ma anche un giorno in cui si dimostra che ogni cittadino israeliano è uguale di fronte alla legge e ogni donna è la sola padrona del suo corpo”. Commento del quotidiano Haaretz: “Il nostro sistema legale ha dovuto decidere se l’uomo scelto per essere il cittadino numero uno di Israele ha gli stessi diritti sessuali un tempo garantiti ai signori feudali, ai re e ai principi”. Commento di Fiamma Nirenstein, giornalista filoisraeliana e deputata del Pdl, sul Giornale di B.: “La fiducia nei giudici in Israele è incrollabile. La decisione della Corte serve da monito: qui non esistono signori feudali e sovrani assoluti. L’intoccabilità non è di casa”. Signori della Corte costituzionale, ci siamo capiti?

Fonte articolo 'Il Fatto Quotidiano'
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