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di 'Per quel che mi riguarda'

lunedì 6 settembre 2010

La missione impossibile di una destra "normale" di Gianpasquale Santomassimo

(foto corriere.it)

Il 28 ottobre del 1992 Gianfranco Fini celebrava con orgoglio i settant'anni dalla Marcia su Roma sul Secolo d'Italia. Quasi vent'anni dopo è possibile che la forma costituzionale della nostra Repubblica venga salvata dalla conversione democratica (a questo punto indubbiamente sincera e anche ammirevole nella sua radicalità) di un gruppo di ex-fascisti che trova in Fini il leader unico e indiscusso.
Nel mezzo, è successo di tutto, e ripercorrerne con attenzione la storia sarà in futuro uno dei compiti più ardui di chi vorrà intendere l'evoluzione di quel periodo confuso e avvilente che definiamo Seconda Repubblica.
Per brevità, diciamo solo che è riduttivo attribuire solo allo «sdoganamento» di Berlusconi, quasi fosse un Re Taumaturgo, la fortuna del neofascismo nella congiuntura che si apriva dopo Tangentopoli. In realtà, il Msi incassava anche i frutti di una lunga battaglia di opposizione contro il sistema dei partiti che lo aveva visto (quasi) sempre emarginato dagli equilibri di potere e di spartizione. E con una retorica e quarantennale invocazione del senso dello Stato e dell'interesse nazionale che avrebbe dovuto porlo naturalmente in tensione con le pulsioni dei nuovi e potenti partners del nuovo centrodestra, berlusconiani e leghisti. Malgrado la disinvoltura con cui il nucleo centrale del gruppo dirigente digerirà su questo terreno l'indigeribile, fino a divenire punta di diamante della nuova koiné forzaleghista, va detto che nella svolta attuale di Fini e del suo nucleo di fedelissimi non c'è solo l'idea di una nuova destra, ma anche il recupero di qualcosa di antico e di negletto nella tradizione della destra italiana.
Le tappe dell'evoluzione di Fini sono note, e le rievochiamo per sommi capi: nel 1994 c'è ancora l'evocazione di Mussolini come «il più grande statista italiano del Novecento», ma nel congresso di Fiuggi del gennaio 1995 c'è l'uscita dalla «casa del padre» e l'affermazione, che nel tempo diverrà strategica seppure vaga, di una destra che precedeva il fascismo e va oltre il fascismo.
Lo smarcamento dal passato avviene per tappe, in forme intimamente contraddittorie: condanna netta del regime «dopo il 1938» (come se prima fosse stato inappuntabile) ed enfasi sulla condanna delle leggi razziali, che diverranno «male assoluto» più tardi, e fulcro di uno spettacolare pellegrinaggio in Israele.
Nel frattempo, Fini non riesce a reprimere pulsioni poliziottesche che derivano dal suo passato: invoca spesso i campi di lavoro forzato in televisione (e l'espulsione dei maestri omosessuali dalle scuole), firma con Bossi una legge infame sull'emigrazione, si trova a Genova nel 2001 nella cabina di regia della «macelleria cilena».
Tutto questo, però, sembra ora appartenere a un'altra vita. Il Fini degli ultimi anni si è contraddistinto per un profilo istituzionale «alto» e per l'apertura di fronti polemici e ideali su temi che lo hanno posto di fatto sempre più in dissenso con la prassi politica e la cultura diffusa del centrodestra. Dalle questioni della bioetica alla laicità dello Stato, dai diritti di cittadinanza degli immigrati (con la visione di una Italia multietnica), alla contestazione di un federalismo secessionista. E, soprattutto, al rifiuto del «cesarismo» e della visione padronale e aziendale che è il vero punto intoccabile del berlusconismo. Su questo Fini ha pagato e sta pagando prezzi molto alti, sul piano politico e su quello personale.
Perso da tempo il sostegno dei suoi «colonnelli», passati con naturalezza fin troppo giuliva alla corte di Berlusconi, si è circondato di politici e intellettuali di diversa provenienza, e di notevole valore. Chi scrive i suoi discorsi istituzionali è sicuramente persona colta e intelligente, con precisione di dettaglio nei richiami storici che sorprende anche gli specialisti. La Fondazione FareFuturo è divenuta negli ultimi anni il luogo di elaborazione politica più vivace e originale nel panorama italiano, specie se confrontata col vuoto bizantinismo dei siti «democratici».
La sua visione della destra non vorrebbe essere alternativa, ma concorrenziale rispetto a quella del Pdl. La battuta sul «compagno Fini» che circola a destra ma talvolta anche a sinistra è appunto solo una battuta, che mette a nudo solo la pochezza della sinistra e dei suoi leader.
Che Fini sia uomo di destra è fuor di dubbio, ed è altrettanto indubbio che voglia porsi come leader di una destra italiana di tipo europeo. In Inghilterra e in Germania le sue posizioni apparirebbero naturali. Il problema però è tutto e solo italiano.
La destra che Fini vorrebbe non è mai esistita in Italia, se non in epoche storiche lontanissime e di cui si è quasi persa memoria. Non si parla qui di singoli personaggi, «eretici» o «irregolari», che la cultura finiana riscopre e ripropone con accanimento quasi commovente: si parla di un comune sentire, di popolo, capace di farsi forza politica e culturale. Qui Feltri e Belpietro interpretano non solo la «pancia» della destra, come vorrebbe FareFuturo, ma anche ethos, ideologia, pensieri profondi e radicati, ancor più difficili da correggere o addirittura ribaltare dopo quasi vent'anni di acquiescenza colpevole ai fasti del berlusconismo.
Probabilmente una insofferenza, vecchia e nuova, nei confronti della rozzezza semplificatoria della destra e del suo illegalismo ostentato e beatificato, esiste davvero, e può dar luogo a un soggetto politico nuovo e originale. Probabilmente sono molti gli uomini di destra che considerano eroe Paolo Borsellino e non Vittorio Mangano, e scoprirlo è confortante per tutti gli italiani onesti. Ma che questa «nuova destra» possa scalzare quella al potere, disciplinarla e incanalarla nell'alveo di una contesa politica «normale» e civile, appare allo stato delle cose un sogno irrealizzabile.
La volontà del nuovo gruppo ispirato da Fini e dai «futuristi» sembra essere quella di non rompere l'alleanza di governo, ma di condizionarla dall'interno, riconducendo a «normale» dialettica di coalizione politica il dominio incontrastato di Berlusconi (e di Bossi). Una missione impossibile, tanto più da parte di chi mostra di avere ben compreso, seppure tardivamente, la vera natura di Berlusconi e del suo impero proprietario.
Qui gioca molto anche il peso di quella sub-ideologia, futile e petulante, che ha preso piede nell'Italia della Seconda Repubblica, e che si esprime nella barbarica «religione del maggioritario». Fini ha usato spesso questa espressione dal '94 in poi, pur essendo stato, e con molta efficacia, il leader del maggiore partito che si era opposto al referendum Segni. Specularmente riaffiora anche a sinistra, in quell'«eterno ritorno del cretino» che si produce ogni volta che si accenna a una riforma elettorale.
Eppure le possibilità di rilanciare una Repubblica parlamentare e costituzionale sono affidate in grandissima parte all'uscita da quella logica. Il futuro di Fini e dei suoi, e del sogno di una destra moderna ed europea, è affidato solo alla possibilità di metter fine al meccanismo perverso che consente a una minoranza di destra, «cialtrona», «ignorante», «col ventre a terra» e «con la bava alla bocca» - sono tutte citazioni dagli editoriali di FareFuturo -, di spadroneggiare sul resto del paese.

Fonte articolo'Il Manifesto'


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