Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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martedì 3 agosto 2010
Due nodi al pettine di Ida Dominijanni
(vignetta Mauro Biani)
Che stavolta la crisi sia di sistema e non solo di maggioranza o di governo lo dimostra il fatto che in tutta la ridda di ipotesi su come se n'esce non ce n'è una che non abbia pesantissime controindicazioni non solo per chi l'avversa ma anche e in primo luogo per chi la sostiene.
Prendiamo le due ipotesi che vanno per la maggiore, voto anticipato (sponsor Berlusconi) o governo di transizione (sponsor il Pd). Il voto anticipato, si dice, sarebbe l'arma finale in mano al Cavaliere, quella che gli consentirebbe di riprendere in mano la partita e di trascinare il paese nel solito gioco, a lui favorevole, della campagna elettorale permanente con relativi toni plebiscitari, appelli al popolo, promesse di miracoli e via dicendo. Ma sarà poi vero che gli conviene, e fino a che punto? Intanto, se lui dice che è vero c'è da giurare che sia piuttosto, rubo l'espressione a Mario Tronti, «veramente falso». Infatti le controindicazioni
pesantissime sono almeno quattro.
Uno, la curva discendente dei consensi al premier, che con la cacciata di Fini può risalire, come Berlusconi millanta, ma può anche scendere di più.
Due, il federalismo incompiuto: senza decreti delegati niente voto, parola di Bossi.
Tre, il pericolo Vendola: Berlusconi lo teme (giustamente) e sul punto è ancora in attesa di sondaggi.
Quattro, se è consentito introdurre una variabile extrapolitica, la crisi: che se negli Usa è stata capace due anni fa di chiudere il trentennio reaganian-bushiano, potrebbe pure essere in grado di chiudere in Italia il ventennio berlusconiano.
Dunque il voto anticipato sarà pure l'arma finale del Cavaliere, ma è un'arma meno carica di quanto sembri.
Passiamo al governo di transizione (nelle sue diverse e imprecisate variabili: tecnico, istituzionale, politico, di scopo, eccetera). Lo vuole il Pd e - pare - il presidente della Repubblica. Ma, a parte le controindicazioni istituzionali – la situazione in cui opera oggi Napolitano è molto diversa da quella in cui operò nel '94 Scalfaro -, siamo sicuri che il Pd, che non è pronto alle elezioni essendo in perenne fase costituente di se stesso, sia invece pronto come dice di essere a questa ipotesi? Franceschini giura di sì («Se riusciamo a far cadere Berlusconi nel Pd ci mettiamo d'accordo in cinque minuti; occorre un governo di transizione che prepari una nuova legge elettorale e apra le porte a un bipolarismo europeo moderno»), ma basta leggere Veltroni per capire che di minuti ce ne vorrebbero parecchi di più, perché nel Pd non c'è alcun accordo su che cosa sia «un bipolarismo europeo moderno» e di conseguenza su quale sia la legge elettorale da fare.
Veltroni è ancora convinto di essere stato lui, non Berlusconi dal predellino, il meritorio artefice del bipolarismo bipartitico e bileaderistico che oggi crolla da centrodestra e che, secondo lui, bisogna tenere in vita da centrosinistra con una legge elettorale nettamente maggioritaria; D'Alema guarda al proporzionale e al modello tedesco per aprire spazi di manovra e di coalizione parlamentare con il centro e il futuribile terzo polo (Casini, Fini e simili). E poi: un governo di transizione, con chi? Per Rosi Bindi, anche con «alleati innaturali», leggi Fini, Tremonti, nonché un Bossi garantito sul federalismo: ma - a parte il fatto che uno di questi alleati non vale l'altro, per via della questione Nord-Sud che ci si mette di mezzo: vedi Luca Ricolfi su «La Stampa» di ieri - nel Pd hanno fatto un conto approssimativo dei costi di queste «alleanze innaturali» in termini di consenso e di tenuta del partito?
No, evidentemente, perché da anni ragionare in termini di rappresentanza, o di rapporto fra società e politica, non va più di moda: si portano solo - a destra e a sinistra - o il populismo mediatico o la trama politica. Controprova: c'è qualcuno, nel centrodestra e nel centrosinistra, che si stia esercitando a mettere in rapporto le scosse del Palazzo con gli effetti sociali della crisi, gli aggiustamenti del capitalismo italiano, che so, le mosse serbo-americane di Marchionne, o il divario, non di voti ma di cittadinanza, fra Nord e Sud, o la condizione giovanile o lo stato del lavoro e del mercato del lavoro? Non risulta, salvo i cenni di Vendola. E dunque per una volta ha ragione Piero Ostellino, quando scrive che la crisi di sistema rischia di esplodere come crisi di rappresentanza, con la fine del Pdl che si trascina dietro automaticamente la fine del Pd; e con ogni probabilità la fine altresì non solo del bipartitismo ma anche del bipolarismo. E ha ragione Giuliano Ferrara quando scrive che stavolta non c'è scampo, viene al pettine il nodo del conflitto che tiene in scacco la politica italiana da vent'anni, fra il modello di democrazia parlamentare scritto nella Costituzione del '48 e il modello presidenzial-populista praticato da Berlusconi. Del resto, nella testa dei padri fondatori modello istituzionale e modello di società si tenevano. Sarebbe il caso
di ricominciare a pensarli insieme.
Fonte articolo 'Il Manifesto'
link collegati:
Seconda Repubblica, titoli di coda di Ida Dominijanni
Probivili di Marco Travaglio
Che stavolta la crisi sia di sistema e non solo di maggioranza o di governo lo dimostra il fatto che in tutta la ridda di ipotesi su come se n'esce non ce n'è una che non abbia pesantissime controindicazioni non solo per chi l'avversa ma anche e in primo luogo per chi la sostiene.
Prendiamo le due ipotesi che vanno per la maggiore, voto anticipato (sponsor Berlusconi) o governo di transizione (sponsor il Pd). Il voto anticipato, si dice, sarebbe l'arma finale in mano al Cavaliere, quella che gli consentirebbe di riprendere in mano la partita e di trascinare il paese nel solito gioco, a lui favorevole, della campagna elettorale permanente con relativi toni plebiscitari, appelli al popolo, promesse di miracoli e via dicendo. Ma sarà poi vero che gli conviene, e fino a che punto? Intanto, se lui dice che è vero c'è da giurare che sia piuttosto, rubo l'espressione a Mario Tronti, «veramente falso». Infatti le controindicazioni
pesantissime sono almeno quattro.
Uno, la curva discendente dei consensi al premier, che con la cacciata di Fini può risalire, come Berlusconi millanta, ma può anche scendere di più.
Due, il federalismo incompiuto: senza decreti delegati niente voto, parola di Bossi.
Tre, il pericolo Vendola: Berlusconi lo teme (giustamente) e sul punto è ancora in attesa di sondaggi.
Quattro, se è consentito introdurre una variabile extrapolitica, la crisi: che se negli Usa è stata capace due anni fa di chiudere il trentennio reaganian-bushiano, potrebbe pure essere in grado di chiudere in Italia il ventennio berlusconiano.
Dunque il voto anticipato sarà pure l'arma finale del Cavaliere, ma è un'arma meno carica di quanto sembri.
Passiamo al governo di transizione (nelle sue diverse e imprecisate variabili: tecnico, istituzionale, politico, di scopo, eccetera). Lo vuole il Pd e - pare - il presidente della Repubblica. Ma, a parte le controindicazioni istituzionali – la situazione in cui opera oggi Napolitano è molto diversa da quella in cui operò nel '94 Scalfaro -, siamo sicuri che il Pd, che non è pronto alle elezioni essendo in perenne fase costituente di se stesso, sia invece pronto come dice di essere a questa ipotesi? Franceschini giura di sì («Se riusciamo a far cadere Berlusconi nel Pd ci mettiamo d'accordo in cinque minuti; occorre un governo di transizione che prepari una nuova legge elettorale e apra le porte a un bipolarismo europeo moderno»), ma basta leggere Veltroni per capire che di minuti ce ne vorrebbero parecchi di più, perché nel Pd non c'è alcun accordo su che cosa sia «un bipolarismo europeo moderno» e di conseguenza su quale sia la legge elettorale da fare.
Veltroni è ancora convinto di essere stato lui, non Berlusconi dal predellino, il meritorio artefice del bipolarismo bipartitico e bileaderistico che oggi crolla da centrodestra e che, secondo lui, bisogna tenere in vita da centrosinistra con una legge elettorale nettamente maggioritaria; D'Alema guarda al proporzionale e al modello tedesco per aprire spazi di manovra e di coalizione parlamentare con il centro e il futuribile terzo polo (Casini, Fini e simili). E poi: un governo di transizione, con chi? Per Rosi Bindi, anche con «alleati innaturali», leggi Fini, Tremonti, nonché un Bossi garantito sul federalismo: ma - a parte il fatto che uno di questi alleati non vale l'altro, per via della questione Nord-Sud che ci si mette di mezzo: vedi Luca Ricolfi su «La Stampa» di ieri - nel Pd hanno fatto un conto approssimativo dei costi di queste «alleanze innaturali» in termini di consenso e di tenuta del partito?
No, evidentemente, perché da anni ragionare in termini di rappresentanza, o di rapporto fra società e politica, non va più di moda: si portano solo - a destra e a sinistra - o il populismo mediatico o la trama politica. Controprova: c'è qualcuno, nel centrodestra e nel centrosinistra, che si stia esercitando a mettere in rapporto le scosse del Palazzo con gli effetti sociali della crisi, gli aggiustamenti del capitalismo italiano, che so, le mosse serbo-americane di Marchionne, o il divario, non di voti ma di cittadinanza, fra Nord e Sud, o la condizione giovanile o lo stato del lavoro e del mercato del lavoro? Non risulta, salvo i cenni di Vendola. E dunque per una volta ha ragione Piero Ostellino, quando scrive che la crisi di sistema rischia di esplodere come crisi di rappresentanza, con la fine del Pdl che si trascina dietro automaticamente la fine del Pd; e con ogni probabilità la fine altresì non solo del bipartitismo ma anche del bipolarismo. E ha ragione Giuliano Ferrara quando scrive che stavolta non c'è scampo, viene al pettine il nodo del conflitto che tiene in scacco la politica italiana da vent'anni, fra il modello di democrazia parlamentare scritto nella Costituzione del '48 e il modello presidenzial-populista praticato da Berlusconi. Del resto, nella testa dei padri fondatori modello istituzionale e modello di società si tenevano. Sarebbe il caso
di ricominciare a pensarli insieme.
Fonte articolo 'Il Manifesto'
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Seconda Repubblica, titoli di coda di Ida Dominijanni
Probivili di Marco Travaglio
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