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di 'Per quel che mi riguarda'

sabato 5 giugno 2010

Il totem della parità di Ida Dominijanni

(immagine tratta da ciamontemesola)

Che sia Brunetta o che sia Tremonti, che sia Mara Carfagna o Emma Marcegaglia o Lazlo
Andor
(commissario alle politiche sociali della Ue, ignoto ai più), il periodico diktat sull’età pensionabile delle donne che viene da Bruxelles e discende per li rami del governo e del padronato italiani ha qualcosa o di perverso o di ottuso, a scelta, nonché di truffaldino e di totemico, senza scelta. La truffa è questa: bisogna fare cassa, in Europa e in Italia, per fronteggiare la crisi, facendola pagare non a chi l’ha provocatama a chi la patisce. La pillola è amara e iniqua, per farla mandare giù ci vuole lo zucchero di una qualche causa superiore che giustifichi i sacrifici. Quindi si mobilita il totem della parità: basta con quei cinque anni di vantaggio per donne, tutti in pensione a 65 anni.
Il totem paritario è, con ogni evidenza e in questo caso con più evidenza del solito, una trappola e un imbroglio. Sul piano europeo, perché la parificazione forzata di situazioni diversificate non si è rivelata fin qui una politica vincente né convincente: il signor Andor o chi per lui si informi sullo stato del mercato del lavoro femminile e delle politiche sociali nei vari paesi dell’Unione prima di parlare. Sul piano nazionale, perché se a Brunetta, a Tremonti, a Carfagna, a Marcegaglia e a tutti gli adoratori e le adoratrici del totem paritario la parità stesse a cuore davvero e tutti i giorni dell’anno, proverebbero a perequare la situazione dalla base - stipendi, carriere, lavoro familiare - e non dal tetto - l’età pensionabile.
E forse capirebbero che non si possono pareggiare in uscita quantità dispari in entrata senza lasciare intatte o accentuare disuguaglianze preesistenti e senza ignorare differenze qualitative che non vanno né pareggiate né annullate ma semmai valorizzate. Ma gli adoratori e le adoratrici del totem lo sanno benissimo. Sanno benissimo che la possibilità di andare in pensione prima (peraltro spesso solo teorica, perché di fatto già adesso molte scelgono forzosamente di lavorare fino a 65 anni per accumulare i contributi necessari a coprire i buchi di carriere intermittenti o precarie) è per le donne una compensazione irrisoria del lavoro triplo e quadruplo che fanno per tutta la vita: quello retribuito per il mercato, e quello non retribuito per i figli, i genitori, i mariti. E che dunque parificare l’età pensionabile non sarebbe affatto una misura antidiscriminatoria per gli uomini, ma ulteriormente discriminatoria per le donne. Ottusa per l’appunto. E qui interviene la perversione: la parità sarebbe un’ulteriore discriminazione, ma va fatta lo stesso oggi per essere corretta domani. Come? Impegnando il governo (di oggi o di domani?) a trasformare i proventi di quei cinque anni in più di lavoro femminile in asili nido e assistenza agli anziani, così le mamme si toglieranno il peso dei figli e le figlie il peso dei genitori e tutte
saranno felici e contente di lavorare come e quanto gli uomini. Meno felici, forse, di essere eternamente considerate dalla scienza economica come madri o figlie e
non come donne. Meno felici, forse, di essere costrette a parcheggiare i figli in asilo e gli anziani in casa di cura pur di lavorare. Ma queste sono sottigliezze che il totem paritario non contempla. Nemmeno contempla il cambio di passo, di ottica e di analisi sul lavoro femminile che la realtà richiede. Sarebbe infatti ora di smettere di parlare del lavoro femminile solo in termini di miseria sociale, mancanza, arretratezza rispetto alla misura maschile e alla norma fordista. L’immensa ricchezza sociale che noi donne produciamo con il lavoro triplo e quadruplo, pagato e non pagato, obbligato e spontaneo, sottoposto, direzionale, relazionale, non è quantificabile secondo i parametri economici classici e non è compensabile con gli asili nido e con le case di riposo. E’ un eccesso, non una miseria. Un di più, non un meno: e non va in parità. Invece di farcelo andare per forza, economisti e politici provassero a trarne qualche idea per una riforma generale del lavoro, basata non su un irrigidimento ma su una riorganizzazione dei tempi e degli anni di lavoro per tutti, donne e uomini, a misura delle esigenze loro e non dell’impresa, privata o pubblica.L’età in cui andare in pensione dev’essere, entro un arco plausibile di possibilità, scelta e non imposta. E l’esperienza femminile insegna che bisogna adeguare il lavoro ai parametri umani della vita, non la vita ai parametri disumani del lavoro, o peggio, del debito pubblico.

Fonte articolo 'Il Manifesto'

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