Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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mercoledì 17 marzo 2010
Quell’indispensabile tocco di rosso di Michele Prospero
Immagine tratta da blog libero centofiori)
Quando le due piazze, quella del lavoro e quella della legalità, si congiungono, come è accaduto a Roma la scorsa settimana, fioriscono le prospettive di una incisiva opposizione di massa alla eutanasia democratica in corso.
Non rinunciando al profilo di un moderno sindacato del conflitto, la Cgil ha mobilitato i suoi iscritti contro quell’incredibile meccanismo di esproprio del reddito da lavoro che è la gigantesca evasione fiscale della neoborghesia diffusa. Proprio attorno alla completa libertà (del capitale) dal fisco, Berlusconi ha costruito la sua solida coalizione sociale imperniata sulla piccola impresa, sul commercio, sul lavoro autonomo. Non a caso, in ogni comizio, per scaldare gli animi freddi del suo pubblico abituato al gelido calcolo economico, egli ripete sempre un motivetto ingiurioso contro Vincenzo Visco e inveisce con impeto contro lo Stato di polizia fiscale. E, una volta al governo, il cavaliere sa come ricompensare (con scudi fiscali, condoni, modifiche del diritto societario, cancellazione immediata della tracciabilità degli assegni) la sua base sociale fortemente antipolitica e attaccata a un cieco interesse particolare.
A questo immenso, ma non maggioritario, blocco sociale incardinato sull’impresa come soggetto politico centrale, Berlusconi, con le risorse illimitate dell’immaginario, riesce poi ad aggiungere anche il consenso inopinato di una parte ampia del lavoro, delle fasce più periferiche e marginali, di vasti ambienti popolari. Il tallone d’Achille del cavaliere si rivela però proprio quando si cimenta nella dura prova del governo.
La favola del presidente operaio dispensatore di miracoli non funziona più quando è a palazzo Chigi e per favorire l’impresa, i redditi da capitale colpisce le pensioni, inasprisce il prelievo fiscale sul lavoro, distrugge le garanzie storiche dei lavoratori (da ultimo con il ricorso all’arbitrato privato nelle controversie aziendali in luogo del giudice ordinario).
Finché a condurre le danze contro lo strapotere della destra è solo il ceto medio riflessivo che si indigna per il principio di legalità calpestato, Berlusconi presume di parare i colpi con disinvoltura. Confida su un dato, purtroppo, divenuto reale: l’ indifferenza di gran parte della società italiana, degli stessi media della (presunta) grande borghesia illuminata, rispetto alla fragorosa rottura delle regole del gioco, alla violazione reiterata di aurei principi costituzionali, alla volontà di infrangere ogni separazione dei poteri. In ogni altro paese un premier che viene colto con le mani nel sacco mentre opera dietro le quinte per bloccare trasmissioni tv sgradite, e così comprime libertà costituzionali fondamentali come quella di informazione, non resisterebbe molto al suo posto.
Nell’Italia che è precipitata in una sordità completa verso le più elementari clausole liberali, il cavaliere domina indisturbato.
Fin quando a combatterlo sono solo i girotondi o il popolo viola, ossia i soggetti più informati e capaci di mobilitarsi con l’apporto dei nuovi media e della rete, Berlusconi scommette che il loro civismo costituzionale non riuscirà mai a disarcionarlo.Quando le piazze si riempiono anche con le bandiere rosse dei lavoratori il cavaliere invece trema perché avverte che il gioco per lui si complica. Dai ceti medi riflessivi e dai soggetti più informati la rivolta si diffonde nella massa e perciò oltre la legalità infranta lambisce il disagio sociale.
Gli tornano allora a mente le due reali sconfitte che il cavaliere ha subito in questi 15 anni. Al Circo Massimo nel 1994 fu il sindacato (più che l’avviso di garanzia che lo raggiunse a Napoli) a determinarne la resa dopo solo pochi mesi di governo.
La sua coalizione sociale contraddittoria si sfaldò perché il lavoro e i ceti socialmente più periferici cessarono di subire l’incanto mistificatorio del piffero
di un ricco imprenditore che colpiva diritti e minacciava i loro interessi collettivi. Un altro suo grave momento di crisi Berlusconi lo visse quando ingaggiò una battaglia simbolica sull’articolo 18 e per risposta ottenne milioni di lavoratori adunati a Roma attorno alla Cgil.
In entrambe le occasioni furono le scelte concrete dell’esecutivo a rendere consapevoli ampi ceti popolari che gli interessi di lavoro e capitale non coincidono affatto.
Dalle dure sconfitte e dai clamorosi fallimenti Berlusconi si è sempre rialzato solo perché i suoi avversari hanno ogni volta rinunciato a dare una rappresentanza politica al lavoro. Al governo la sinistra ha proclamato una lettura del tutto aconflittuale della società che è risuonata come in sé provocatoria in un paese che ha visto negli anni della cosiddetta seconda repubblica una spaventosa contrazione dei redditi da lavoro e una impennata sensazionale dei profitti.
Il chiacchiericcio politologico sui flussi dell’elettore mediano, sullo spazio centrale da conquistare con arcane alchimie moderate occulta un dato del tutto incontrovertibile: a determinare gli spostamenti di voto e quindi i successi delle coalizioni è sempre quella parte di popolo socialmente periferica che oscilla tra gli abboccamenti infantili dinanzi alle seduzioni del marketing berlusconiano e le delusioni cocenti al cospetto dei salassi di politiche economiche ostili. Catturare questo segmento di popolo è fondamentale per arginare la veloce deriva democratica e far franare la terra attorno al berlusconismo.
Fonte articolo 'IL Manifesto'
Quando le due piazze, quella del lavoro e quella della legalità, si congiungono, come è accaduto a Roma la scorsa settimana, fioriscono le prospettive di una incisiva opposizione di massa alla eutanasia democratica in corso.
Non rinunciando al profilo di un moderno sindacato del conflitto, la Cgil ha mobilitato i suoi iscritti contro quell’incredibile meccanismo di esproprio del reddito da lavoro che è la gigantesca evasione fiscale della neoborghesia diffusa. Proprio attorno alla completa libertà (del capitale) dal fisco, Berlusconi ha costruito la sua solida coalizione sociale imperniata sulla piccola impresa, sul commercio, sul lavoro autonomo. Non a caso, in ogni comizio, per scaldare gli animi freddi del suo pubblico abituato al gelido calcolo economico, egli ripete sempre un motivetto ingiurioso contro Vincenzo Visco e inveisce con impeto contro lo Stato di polizia fiscale. E, una volta al governo, il cavaliere sa come ricompensare (con scudi fiscali, condoni, modifiche del diritto societario, cancellazione immediata della tracciabilità degli assegni) la sua base sociale fortemente antipolitica e attaccata a un cieco interesse particolare.
A questo immenso, ma non maggioritario, blocco sociale incardinato sull’impresa come soggetto politico centrale, Berlusconi, con le risorse illimitate dell’immaginario, riesce poi ad aggiungere anche il consenso inopinato di una parte ampia del lavoro, delle fasce più periferiche e marginali, di vasti ambienti popolari. Il tallone d’Achille del cavaliere si rivela però proprio quando si cimenta nella dura prova del governo.
La favola del presidente operaio dispensatore di miracoli non funziona più quando è a palazzo Chigi e per favorire l’impresa, i redditi da capitale colpisce le pensioni, inasprisce il prelievo fiscale sul lavoro, distrugge le garanzie storiche dei lavoratori (da ultimo con il ricorso all’arbitrato privato nelle controversie aziendali in luogo del giudice ordinario).
Finché a condurre le danze contro lo strapotere della destra è solo il ceto medio riflessivo che si indigna per il principio di legalità calpestato, Berlusconi presume di parare i colpi con disinvoltura. Confida su un dato, purtroppo, divenuto reale: l’ indifferenza di gran parte della società italiana, degli stessi media della (presunta) grande borghesia illuminata, rispetto alla fragorosa rottura delle regole del gioco, alla violazione reiterata di aurei principi costituzionali, alla volontà di infrangere ogni separazione dei poteri. In ogni altro paese un premier che viene colto con le mani nel sacco mentre opera dietro le quinte per bloccare trasmissioni tv sgradite, e così comprime libertà costituzionali fondamentali come quella di informazione, non resisterebbe molto al suo posto.
Nell’Italia che è precipitata in una sordità completa verso le più elementari clausole liberali, il cavaliere domina indisturbato.
Fin quando a combatterlo sono solo i girotondi o il popolo viola, ossia i soggetti più informati e capaci di mobilitarsi con l’apporto dei nuovi media e della rete, Berlusconi scommette che il loro civismo costituzionale non riuscirà mai a disarcionarlo.Quando le piazze si riempiono anche con le bandiere rosse dei lavoratori il cavaliere invece trema perché avverte che il gioco per lui si complica. Dai ceti medi riflessivi e dai soggetti più informati la rivolta si diffonde nella massa e perciò oltre la legalità infranta lambisce il disagio sociale.
Gli tornano allora a mente le due reali sconfitte che il cavaliere ha subito in questi 15 anni. Al Circo Massimo nel 1994 fu il sindacato (più che l’avviso di garanzia che lo raggiunse a Napoli) a determinarne la resa dopo solo pochi mesi di governo.
La sua coalizione sociale contraddittoria si sfaldò perché il lavoro e i ceti socialmente più periferici cessarono di subire l’incanto mistificatorio del piffero
di un ricco imprenditore che colpiva diritti e minacciava i loro interessi collettivi. Un altro suo grave momento di crisi Berlusconi lo visse quando ingaggiò una battaglia simbolica sull’articolo 18 e per risposta ottenne milioni di lavoratori adunati a Roma attorno alla Cgil.
In entrambe le occasioni furono le scelte concrete dell’esecutivo a rendere consapevoli ampi ceti popolari che gli interessi di lavoro e capitale non coincidono affatto.
Dalle dure sconfitte e dai clamorosi fallimenti Berlusconi si è sempre rialzato solo perché i suoi avversari hanno ogni volta rinunciato a dare una rappresentanza politica al lavoro. Al governo la sinistra ha proclamato una lettura del tutto aconflittuale della società che è risuonata come in sé provocatoria in un paese che ha visto negli anni della cosiddetta seconda repubblica una spaventosa contrazione dei redditi da lavoro e una impennata sensazionale dei profitti.
Il chiacchiericcio politologico sui flussi dell’elettore mediano, sullo spazio centrale da conquistare con arcane alchimie moderate occulta un dato del tutto incontrovertibile: a determinare gli spostamenti di voto e quindi i successi delle coalizioni è sempre quella parte di popolo socialmente periferica che oscilla tra gli abboccamenti infantili dinanzi alle seduzioni del marketing berlusconiano e le delusioni cocenti al cospetto dei salassi di politiche economiche ostili. Catturare questo segmento di popolo è fondamentale per arginare la veloce deriva democratica e far franare la terra attorno al berlusconismo.
Fonte articolo 'IL Manifesto'
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