Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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martedì 2 febbraio 2010
ITALIA OGGI, LA FINE DEL LAVORO: 'Una scia di sangue che nessuno vuole vedere. E che uccide la democrazia' di Mimmo Calopresti
Vite che diventano morti. Invisibili le une, invisibili le altre. Come una “Shoah” del lavoro. Sono gli operai come Sergio che si è dato fuoco. Come i tanti Davide, Luigi.
La morte del lavoro, per il lavoro. Inghiottiti in una zona grigia di indifferenza, di normalità. Non si vede il fondo. Ecco perché servirebbe un archivio della memoria di queste persone. Nomi, cognomi, storie, desideri. Scopriremo qualcosa che ci è passata davanti. Biografie, famiglie, vite cancellate per sempre. Inutili. Come rischiano di diventare i gesti estremi di protesta e disperazione, buttarsi da un ponte o cospargersi di benzina e darsi fuoco. Pura dimostrazione di impotenza. Il sacrificio di Jan Palach alla fine è servito. Qui non sembra esserci sbocco, futuro. Chi si ricorda più della maxi-ristrutturazione della Fiat degli anni ‘80, di quelle migliaia di lavoratori messi in cassa integrazione? Molti suicidi tra quegli operai a cui era stata tolta la ragione di una vita. Ma chi se li ricorda? Sono serviti al risanamento dell’azienda, a una nuova competitività. La fabbrica “ringrazia”. Stop. Tutto passa, inutile. Come le morti bianche.
Nessuno vuole vedere. Nemmeno prima che le tragedie si compiano. Prendi la Thyssen, il rogo infame di Torino. Quei ragazzi si erano infilati in un tunnel da soli: l’inferno era già negli orari allungati, nei turni massacranti, nei contratti fantasma. Ma è una questione di democrazia – la parola è questa. Perché queste persone – la loro esistenza, i loro diritti di persone – sono stati messi da parte. Non hanno voce, non hanno rappresentanza. Non è una formula: la mancanza di democrazia diventa reale con e attraverso questi fatti. Puoi perdere tutto, ma se sei rappresentato – se quello che volevi dire, se quello che reclamavi come necessario vive come esigenza collettiva e politica – significa che sei ancora parte di qualcosa, che questo qualcosa – la democrazia appunto – si sta occupando di te. Oggi invece il dibattito è sulla crisi. Crisi reale ma confronto irreale, surreale rispetto alle cose, al mutuo da pagare, allo stipendio che c’è (poco) e poi non c’è più. La democrazia deve essere esercizio. Altrimenti è vuota, altrimenti è una rappresentanza piegata al mero sondaggio. Il gesto ultimo – togliersi la vita – è inutile e vuoto se non apre al futuro, alla prospettiva. Se questo non succede ti stanno semplicemente dicendo che non esisti. Perché il sindacato non basta, ma qui si tratta di qualcosa su cui non si può trattare.
Ed è la Chiesa adesso l’unica voce che sembra capirlo. Dal lavoro agli extracomunitari, così fa politica. Seria e giusta. Gli altri sono terrorizzati dal dire qualcosa, loro parlano. Prima si aiuta, poi la legge e i reati. Ogni dibattito è inutile se non parte da questo, dalla vita immediata. Certo, la crisi e la paura alimentano e oliano il meccanismo perfetto del silenzio. C’è da sopravvivere, da sfangarla, altro che lotta. Che diventa semmai roba da disgraziati, guerra tra gli ultimi. Guardare dall’altra parte – è crudele – ma dà sollievo.
Le fabbriche chiudono, l’azienda fa i conti e magari ha ragione: non si può andare avanti, fine delle trasmissioni. Ma il punto è capire che all’inizio del “sistema” non può esserci il conto, ma la vita delle persone. La logica del fatturato deve essere accettabile, ma solo come visione di una parte, non come logica generale di un paese.
Non costringiamolo a guardare un disgraziato che si dà fuoco, perché significa ammettere che abbiamo perso. E quanto possiamo perdere ancora?
Articolo e foto tratti da 'Il Fatto Quotidiano'
La morte del lavoro, per il lavoro. Inghiottiti in una zona grigia di indifferenza, di normalità. Non si vede il fondo. Ecco perché servirebbe un archivio della memoria di queste persone. Nomi, cognomi, storie, desideri. Scopriremo qualcosa che ci è passata davanti. Biografie, famiglie, vite cancellate per sempre. Inutili. Come rischiano di diventare i gesti estremi di protesta e disperazione, buttarsi da un ponte o cospargersi di benzina e darsi fuoco. Pura dimostrazione di impotenza. Il sacrificio di Jan Palach alla fine è servito. Qui non sembra esserci sbocco, futuro. Chi si ricorda più della maxi-ristrutturazione della Fiat degli anni ‘80, di quelle migliaia di lavoratori messi in cassa integrazione? Molti suicidi tra quegli operai a cui era stata tolta la ragione di una vita. Ma chi se li ricorda? Sono serviti al risanamento dell’azienda, a una nuova competitività. La fabbrica “ringrazia”. Stop. Tutto passa, inutile. Come le morti bianche.
Nessuno vuole vedere. Nemmeno prima che le tragedie si compiano. Prendi la Thyssen, il rogo infame di Torino. Quei ragazzi si erano infilati in un tunnel da soli: l’inferno era già negli orari allungati, nei turni massacranti, nei contratti fantasma. Ma è una questione di democrazia – la parola è questa. Perché queste persone – la loro esistenza, i loro diritti di persone – sono stati messi da parte. Non hanno voce, non hanno rappresentanza. Non è una formula: la mancanza di democrazia diventa reale con e attraverso questi fatti. Puoi perdere tutto, ma se sei rappresentato – se quello che volevi dire, se quello che reclamavi come necessario vive come esigenza collettiva e politica – significa che sei ancora parte di qualcosa, che questo qualcosa – la democrazia appunto – si sta occupando di te. Oggi invece il dibattito è sulla crisi. Crisi reale ma confronto irreale, surreale rispetto alle cose, al mutuo da pagare, allo stipendio che c’è (poco) e poi non c’è più. La democrazia deve essere esercizio. Altrimenti è vuota, altrimenti è una rappresentanza piegata al mero sondaggio. Il gesto ultimo – togliersi la vita – è inutile e vuoto se non apre al futuro, alla prospettiva. Se questo non succede ti stanno semplicemente dicendo che non esisti. Perché il sindacato non basta, ma qui si tratta di qualcosa su cui non si può trattare.
Ed è la Chiesa adesso l’unica voce che sembra capirlo. Dal lavoro agli extracomunitari, così fa politica. Seria e giusta. Gli altri sono terrorizzati dal dire qualcosa, loro parlano. Prima si aiuta, poi la legge e i reati. Ogni dibattito è inutile se non parte da questo, dalla vita immediata. Certo, la crisi e la paura alimentano e oliano il meccanismo perfetto del silenzio. C’è da sopravvivere, da sfangarla, altro che lotta. Che diventa semmai roba da disgraziati, guerra tra gli ultimi. Guardare dall’altra parte – è crudele – ma dà sollievo.
Le fabbriche chiudono, l’azienda fa i conti e magari ha ragione: non si può andare avanti, fine delle trasmissioni. Ma il punto è capire che all’inizio del “sistema” non può esserci il conto, ma la vita delle persone. La logica del fatturato deve essere accettabile, ma solo come visione di una parte, non come logica generale di un paese.
Non costringiamolo a guardare un disgraziato che si dà fuoco, perché significa ammettere che abbiamo perso. E quanto possiamo perdere ancora?
Articolo e foto tratti da 'Il Fatto Quotidiano'
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