Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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lunedì 18 gennaio 2010
Nel nome del mercato Google sfida Pechino di Loretta Napoleoni
Google sfida Pechino e dichiara che non censurerà più la sua versione cinese, ecco la notizia bomba della settimana. Google.cn sarà identico al suo gemello .com. Ufficialmente la decisione è legata ad una disputa di propietà intellettuale. Google sostiene che qualcuno è penetrato nei conti gmail di attivisti politici cinesi in Cina, negli Stati Uniti ed in Europa. È possibile, l’hacking cibernetico avviene quotidianamente e dovunque. Ma un’occhiata ai conti del motore di ricerca più grande del mondo offre un’interpretazione meno ideologica e più strettamente commerciale della rinuncia ad un mercato di 1.3 miliardi di persone. L’avventura cinese di Google, iniziata nel 2006, come quella di molte altre società occidentali, non ha prodotto i risultati sperati.
Google ha accettato di filtrare le informazioni per poter accedere al mercato cinese, potenzialmente vastissimo dal momento che il tasso di crescita di chi usufruisce dell’internet in Cina è imbattibile. Ma dopo quasi quattro anni il gigante americano fatica ad emulare il successo ottenuto altrove. Prima di tutto deve competere con Baidu, il motore di ricerca cinese che controlla ormai il 60% del mercato, mentre Google si deve accontentare di un terzo. Baidu è ben visto dal governo, naturalmente, ma la sua popolarità dipende anche dal modo in cui è strutturata la web, più agevole per chi scrive in mandarino e dalla difficoltà di tradurre il logo Google.
In secondo luogo le entrate di Google provengono principalmente dai 30 milioni di cinesi che usano gmail, e cioé qualche centinaia di milioni di dollari, una bazecola rispetto alle entrate mondiali pari a 22 miliardi l’anno di cui oltre 10 provenienti dagli Stati Uniti. E questo perché da marzo è vietato usare YouTube. Nel 2006 Google ha pagato un miliardo e sessantacinque milioni di dollari per acquisire YouTube che gli genera una buona fetta di profitti.
A conti fatti, dunque, non vale la pena sottomettersi alle regole di censura cinesi e subirne le conseguenze in casa. Basta ricordare il caso dei dirigenti di Yahoo, oggetto di interrogazioni parlamentari nel 2004 perché avevano passato a Pechino alcune email di dissidenti cinesi. Anche Yahoo non è riuscito a stabilire una presenza in Cina ed ha venduto la sua struttura ad Alibaba, anch’essa una società locale ben vista dal governo.
Infine c’è la questione del copyright che a detta degli occidentali i cinesi non rispettano, è questo il caso dei filtri contro la pornografia. Cybersitter ha citato in giudizio la cinese Green Dam Youth Escort per più di due miliardi di dollari. Anche in questo caso l’avventura cinese è stata un fiasco.
Quello cinese è dunque un mercato spinosissimo per i giganti informatici occidentali e le loro difficoltà nel penetrarlo si aggiungono agli insuccessi di tante altre imprese che hanno tentato la sorte nel Paese più popolato al mondo.
Fonte articolo
Google ha accettato di filtrare le informazioni per poter accedere al mercato cinese, potenzialmente vastissimo dal momento che il tasso di crescita di chi usufruisce dell’internet in Cina è imbattibile. Ma dopo quasi quattro anni il gigante americano fatica ad emulare il successo ottenuto altrove. Prima di tutto deve competere con Baidu, il motore di ricerca cinese che controlla ormai il 60% del mercato, mentre Google si deve accontentare di un terzo. Baidu è ben visto dal governo, naturalmente, ma la sua popolarità dipende anche dal modo in cui è strutturata la web, più agevole per chi scrive in mandarino e dalla difficoltà di tradurre il logo Google.
In secondo luogo le entrate di Google provengono principalmente dai 30 milioni di cinesi che usano gmail, e cioé qualche centinaia di milioni di dollari, una bazecola rispetto alle entrate mondiali pari a 22 miliardi l’anno di cui oltre 10 provenienti dagli Stati Uniti. E questo perché da marzo è vietato usare YouTube. Nel 2006 Google ha pagato un miliardo e sessantacinque milioni di dollari per acquisire YouTube che gli genera una buona fetta di profitti.
A conti fatti, dunque, non vale la pena sottomettersi alle regole di censura cinesi e subirne le conseguenze in casa. Basta ricordare il caso dei dirigenti di Yahoo, oggetto di interrogazioni parlamentari nel 2004 perché avevano passato a Pechino alcune email di dissidenti cinesi. Anche Yahoo non è riuscito a stabilire una presenza in Cina ed ha venduto la sua struttura ad Alibaba, anch’essa una società locale ben vista dal governo.
Infine c’è la questione del copyright che a detta degli occidentali i cinesi non rispettano, è questo il caso dei filtri contro la pornografia. Cybersitter ha citato in giudizio la cinese Green Dam Youth Escort per più di due miliardi di dollari. Anche in questo caso l’avventura cinese è stata un fiasco.
Quello cinese è dunque un mercato spinosissimo per i giganti informatici occidentali e le loro difficoltà nel penetrarlo si aggiungono agli insuccessi di tante altre imprese che hanno tentato la sorte nel Paese più popolato al mondo.
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