Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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mercoledì 27 gennaio 2010
LA VOLPE DEL TAVOLIERE di Luigi Pintor
Il titolo di questo vecchio editoriale, richiamato di recente da un commento di Rossana Rossanda, è diventato lo slogan più usato dalla stampa italiana per fotografare la crisi del Pd e della politica di Massimo D’Alema. Sono passati quattordici anni ma sembra scritto oggi.
D’Alema non lo sa ma qualcuno dovrebbe dirglielo, amichevolmente. Quando appare in televisione, cioè ogni minuto e mezzo, fa ormai pensare a una parodia, a un’involontaria presa in giro di sé e degli altri. Somiglia sempre di più, con tutto il rispetto, a Peppino De Filippo. Se avessimo ancora qualche speranza che una coalizione democratica decorosa e una sinistra visibile (ultima novità) possano vincere un confronto elettorale con la destra dilagante, D’Alema riesce a togliercela senza rimedio. Occhetto era altrettanto irritante, ma meno deprimente. Se esistesse, la dirigenza del Pds dovrebbe legare l’attuale segretario, sia pure con quei guinzagli elastici che permettono un certo raggio d’azione, invece di delegargli il potere di intorbidare ogni cosa. Ma per esistere, una dirigenza non dovrebbe essere fatta a immagine e somiglianza del principale, tanti occhettini e d’alemini a seconda delle circostanze.
Vien quasi da dubitare che un Pds esista, se non come area elettorale, tant’è remissivo. E infatti Veltroni o chi per lui lo scioglierebbero volentieri, e prima o poi lo faranno. Le bolognine si tirano l’un l’altra, come le ciliege, e non finiscono mai. Quando si parte col piede sbagliato si ruzzola fino a rompersi l’osso del collo, per legge di gravità. Un anno fa c’era ancora qualche possibilità di rivincita o rivalsa sullo sciagurato voto del 27 marzo. Berlusconi era caduto malamente, la destra era presa in contropiede, un sussulto democratico era pur vagamente nell’aria. Un leader politico minimamente dotato e coraggioso, una sinistra minimamente convinta, avrebbero colto l’attimo, passato il Rubicone (che poi è un fiumiciattolo), allargato il varco e espugnato Saigon. Le elezioni in quel giugno (quello passato, non quello venturo), sarebbero state una vittoria politica, anche se fossero risultate tecnicamente neutre.
Ma scherziamo? La volpe di Gallipoli e gli addetti all’ingegneria e idraulica di Montecitorio sono molto più astuti di così. Hanno studiato la storia al liceo e hanno deciso di temporeggiare e logorare il nemico (come Fabio Massimo), di reclutare in ogni dove banchieri e giustizieri simbolici nonché truppe cammellate padane (come Scipione l’africano) e di giocare a sottomuro con le figurine della Costituzione
nei cortili del Quirinale.
Col risultato che, dopo un anno, il logoro Berlusconi risplende come un lord protettore della politica nazionale e l’imberbe Fini come punta di diamante della nuova repubblica (la III in ordine cronologico e gerarchico, la I essendo per lui quella di Salò).
Ora lo scaltro D’Alema, dopo questo capolavoro di tattica e strategia, ci rassicura in interviste giornaliere e incredule assemblee che non farà porcherie ma solo democratiche intese e governi conseguenti. Ma non ci aveva scritto poco fa che questi progetti erano nostre invenzioni calunniose? Sì, ma è appunto con questi giochi di parole che si vendono i tappeti nei suk.
Le farà, le porcherie, ne farà di crude e di cotte nel lungo brodo da caserma della crisi governativa e del semestre europeo. Non c’è nessun bisogno di aspettare per credere, le ipotesi di crisi bicefale, governi a mezzadria, maggioranze cumulative e trasversali, commerci costituzionali e legislativi, mascherate presidenzialiste, sono porcherie già consumate per il solo fatto d’essere formulate. Un’orgia di craxismo ritardato, un credito dispensato a piene mani alle culture di destra di ogni specie.
C’è del metodo in questa follia, non è più una politica ma tutta una mentalità. Affrontare le elezioni significa ormai, per il leader minimo, una sconfitta campale. Per ritardarla sarà dunque opportuno mettere a repentaglio tutto, anche l’onore come si diceva una volta, o semplicemente il decoro. Non quello personale, che è affar suo e di ciascuno, ma quello della sinistra e della democrazia, e questo non dovremmo permetterlo. Purtroppo, accade già nella realtà di ogni giorno, non c’è di nuovo bisogno di aspettare per credere: se sbattiamo in galera gli immigrati clandestini, possiamo anche inserire questo sano principio nella Costituzione riformata.
Articolo e vignetta tratti da 'Il Manifesto'
D’Alema non lo sa ma qualcuno dovrebbe dirglielo, amichevolmente. Quando appare in televisione, cioè ogni minuto e mezzo, fa ormai pensare a una parodia, a un’involontaria presa in giro di sé e degli altri. Somiglia sempre di più, con tutto il rispetto, a Peppino De Filippo. Se avessimo ancora qualche speranza che una coalizione democratica decorosa e una sinistra visibile (ultima novità) possano vincere un confronto elettorale con la destra dilagante, D’Alema riesce a togliercela senza rimedio. Occhetto era altrettanto irritante, ma meno deprimente. Se esistesse, la dirigenza del Pds dovrebbe legare l’attuale segretario, sia pure con quei guinzagli elastici che permettono un certo raggio d’azione, invece di delegargli il potere di intorbidare ogni cosa. Ma per esistere, una dirigenza non dovrebbe essere fatta a immagine e somiglianza del principale, tanti occhettini e d’alemini a seconda delle circostanze.
Vien quasi da dubitare che un Pds esista, se non come area elettorale, tant’è remissivo. E infatti Veltroni o chi per lui lo scioglierebbero volentieri, e prima o poi lo faranno. Le bolognine si tirano l’un l’altra, come le ciliege, e non finiscono mai. Quando si parte col piede sbagliato si ruzzola fino a rompersi l’osso del collo, per legge di gravità. Un anno fa c’era ancora qualche possibilità di rivincita o rivalsa sullo sciagurato voto del 27 marzo. Berlusconi era caduto malamente, la destra era presa in contropiede, un sussulto democratico era pur vagamente nell’aria. Un leader politico minimamente dotato e coraggioso, una sinistra minimamente convinta, avrebbero colto l’attimo, passato il Rubicone (che poi è un fiumiciattolo), allargato il varco e espugnato Saigon. Le elezioni in quel giugno (quello passato, non quello venturo), sarebbero state una vittoria politica, anche se fossero risultate tecnicamente neutre.
Ma scherziamo? La volpe di Gallipoli e gli addetti all’ingegneria e idraulica di Montecitorio sono molto più astuti di così. Hanno studiato la storia al liceo e hanno deciso di temporeggiare e logorare il nemico (come Fabio Massimo), di reclutare in ogni dove banchieri e giustizieri simbolici nonché truppe cammellate padane (come Scipione l’africano) e di giocare a sottomuro con le figurine della Costituzione
nei cortili del Quirinale.
Col risultato che, dopo un anno, il logoro Berlusconi risplende come un lord protettore della politica nazionale e l’imberbe Fini come punta di diamante della nuova repubblica (la III in ordine cronologico e gerarchico, la I essendo per lui quella di Salò).
Ora lo scaltro D’Alema, dopo questo capolavoro di tattica e strategia, ci rassicura in interviste giornaliere e incredule assemblee che non farà porcherie ma solo democratiche intese e governi conseguenti. Ma non ci aveva scritto poco fa che questi progetti erano nostre invenzioni calunniose? Sì, ma è appunto con questi giochi di parole che si vendono i tappeti nei suk.
Le farà, le porcherie, ne farà di crude e di cotte nel lungo brodo da caserma della crisi governativa e del semestre europeo. Non c’è nessun bisogno di aspettare per credere, le ipotesi di crisi bicefale, governi a mezzadria, maggioranze cumulative e trasversali, commerci costituzionali e legislativi, mascherate presidenzialiste, sono porcherie già consumate per il solo fatto d’essere formulate. Un’orgia di craxismo ritardato, un credito dispensato a piene mani alle culture di destra di ogni specie.
C’è del metodo in questa follia, non è più una politica ma tutta una mentalità. Affrontare le elezioni significa ormai, per il leader minimo, una sconfitta campale. Per ritardarla sarà dunque opportuno mettere a repentaglio tutto, anche l’onore come si diceva una volta, o semplicemente il decoro. Non quello personale, che è affar suo e di ciascuno, ma quello della sinistra e della democrazia, e questo non dovremmo permetterlo. Purtroppo, accade già nella realtà di ogni giorno, non c’è di nuovo bisogno di aspettare per credere: se sbattiamo in galera gli immigrati clandestini, possiamo anche inserire questo sano principio nella Costituzione riformata.
Articolo e vignetta tratti da 'Il Manifesto'
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