
Il primo aspetto è una constatazione banale: farsi “testare” nel giorno previsto, dopo una bene orchestrata campagna di annunci che dura da settimane, è il sogno dei più accaniti “utilizzatori finali” della droga. È il paradiso degli atleti che, invece, vengono sorpresi a caso, in un momento imprevisto, da test come questi. Qui basta saperlo. Fai una figurona offrendoti allo strappo del capello, e il giorno dopo si celebra. Quanto ai molti che si sono fatti strappare il capello perché ci hanno davvero creduto (operazione non facilissima per i molti calvi della legislatura), sorprende la forza di una cultura sgangherata che non sa cosa fare con le droghe e sembra ignara del rispetto dovuto ad un Parlamento.
Ecco infatti il punto più interessante. La lettera che invita tutti noi deputati al fatidico test del capello, giunge in tutte le caselle della Camera su carta intestata “il ministro della Difesa”. Dunque è il ministro della Difesa, con tutto il peso che quel ministro ha nel governo, a chiedere il test del capello. Chiedere o ordinare? Un potente ministro dispone, e subito si forma il posto di blocco con addetti in camice bianco. Immediatamente si formano gruppi di deputati pronti a obbedire al ministro. Qualunque sia l’esito dei test, inevitabile dire: c’è qualcosa di stupefacente in questa malinconica e marginale vicenda. Il silenzio del presidente della Camera e dei capi gruppo parlamentari, almeno a sinistra, è certo un motivo in più d’imbarazzo. È incredibile e umiliante che un Parlamento scatti di fronte al ministro della Difesa gridando “agli ordini”.
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