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di 'Per quel che mi riguarda'

martedì 28 luglio 2009

DEMOCRATICI AL FRONTE di Tommaso Di Francesco

«Io li riporterei tutti a casa ». E ancora, «la democrazia non si esporta con le armi». Le dichiarazioni parlano del disastro della coalizione occidentale in Afghanistan e del pericolo per le truppe italiane, ma anche del limite della presenza armata in Libano e nei Balcani.
Potrebbero, dovrebbero essere degli esponenti dell’opposizione, invece appartengono ad una componente chiave, «popolare», del governo, la Lega che, prima con il leader supremo Bossi e poi con il ministro Calderoli alzano la voce in piena estate. Naturalmente sono chiacchiere, strumentali al ruolo nel governo, anche perché la Lega conferma l’intenzione di «andare avanti, fino in fondo» in quella guerra com’è accaduto ieri alla Camera sulla proroga delle missioni all’estero, senza dimenticare il razzismo che la contraddistingue quando parla dei distinguo tra democrazia e «barbari». Pur tuttavia le prese di posizione interne alla destra più autoctona che c’è meritano una riflessione. Perché nessuno, né a parole né con iniziative di mobilitazione, dice no in questo momento alla guerra in Afghanistan. Fatta eccezione per le scarse e divise formazioni della sinistra anticapitalista, non è infatti la guerra l’argomento che divide e accalora il fantasmagorico quanto artificioso congresso del Pd. Il bello, il brutto e il cattivo,
vale a dire le anime del Partito democratico se criticano il governo infatti lo fanno, come Bersani, solo per rimproverare «un governo diviso mentre i nostri soldati
sono al fronte». Perché lì i nostri soldati, raccontano i giornalisti embedded dei tg berlusconiani, nell’avamposto di Bala Murghab, nonostante subiscano vittime, ferimenti e agguati, chiedono come fu nell’epopea fascista di Giarabub «non pane ma
piombo per il moschetto». In una parola, vogliono tornare in prima linea a combattere. Proprio quando è chiaro che, in quella fabbrica di eroi, si sta rischiando ogni giorno una Nassiriya afghana. E sempre più di guerra si tratta con l’annuncio del ministro Frattini che i cacciabombardieri d’attacco Tornado che abbiamo deciso di inviare saranno impegnati direttamente in azioni di combattimento. Vale a dire bombarderanno dall’alto dei cieli gli insurgent, con una miriade di effetti collaterali, cioè stragi di civili, che isolano i militari della coalizione occidentale e rafforzano i taleban. Qual è il punto? Lì la Nato, che con un colpo di mano nel 2003 ha preso la leadership della missione Isaf, sta perdendo la guerra. I taleban sono all’offensiva in tutto il paese. L’unico obiettivo è sostenere le elezioni presidenziali di agosto inviando altre migliaia di soldati: l’ha purtroppo deciso lo stesso presidente americano Barack Obama. L’Italia ne invierà altri cinquecento a far la ronda al «sindaco di Kabul » Hamid Karzai. E mentre il presidente afghano, per la sua corruzione e per gli attacchi frequenti contro i raid della Nato che mietono vittime e civili, è diventato impopolare a Washington, ecco che la diplomazia americana - che bene li conosce per averli inventati insieme con i servizi pakistani - riallaccia trattative con gli stessi taleban. Anche perché la loro iniziativa minaccia ormai la stabilità del Pakistan che possiede l’atomica. Una minaccia ben più consistente dello spauracchio Iran. Questo è il risultato, dopo quasi otto anni di occupazione militare dell’Afghanistan? Nel congresso Usa centinaia
di deputati democratici, ma anche qualche repubblicano, ricordando il precedente del Vietnam, chiedono ormai di uscire da quella guerra che, è bene ricordarlo, è stata di vendetta per l’ancora misterioso 11 settembre 2001. Non altro. Nel Parlamento italiano i democratici sollevano invece polveroni di parole, un’indipendenza etnica e unilaterale nel disprezzo del diritto internazionale. Un doppio strabismo nei Balcani. Perché, al contrario, in Bosnia Erzegovina i contingenti militari vorrebbero invece imporre un’unificazione forzata delle entità statuali divise riconosciute dalla pace di Dayton che pose fine alla guerra interetnica del 1995. Meglio tacerle queste verità. Vale per i vari Bersani, Franceschini, Fassino, D’Alema, Parisi, eccetera, eccetera... Tutti prigionieri di guerra. Rischiando però che anche su questo parli la destra e addirittura a nome degli italiani. L’importante è che il rifiuto della guerra e una politica di pace non siano mai all’ordine del giorno.
Cianciano di exit strategy ma non dicono no alla guerra, votano sì all’invio di nuove truppe e dei Tornado e restano fedeli al mandato bipartisan. Perché quella guerra è stata voluta anche da loro. Così nessuno si interroga sul vuoto di prospettiva delle missioni militari italiane in Libano, mentre la Palestina rimane senza più speranza. E nei Balcani c’è il caos istituzionale. Con le nostre truppe strabiche perché presenti come Kfor, secondo il mandato Onu che riconosce ancora la sovranità serba del Kosovo, ma soggette all’Italia che già con il governo di centro-sinistra ha riconosciuto.

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