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di 'Per quel che mi riguarda'

martedì 23 agosto 2011

Il paravento libico nasconde i fallimenti degli altri fronti di guerra di Giuliana Sgrena

(vignetta Mauro Biani)
La pretesa imminente «vittoria» della Nato in Libia permette per il momento all’Occidente di nascondere altri fallimenti e disastri provocati dagli interventi delle truppe occidentali fuori dai propri confini. In attesa di poter mettere le mani sulle risorse petrolifere della Libia e poter così ricompensare i costi della guerra, diventati tema di battaglia per quelle forze (leghiste) che si oppongono alla guerra per egoismo e non per pacifismo.
La Libia è il paravento che nasconde il fallimento della exit strategy all’Afghanistan, dove ogni giorno si producono scontri emassacri senza precedenti, che si estendono anche al Pakistan. Forse sarebbe meglio parlare di exit strategy dei taleban che si preparano a tornare al potere, con l’accordo o meno, degli Stati uniti. Il numero delle vittime aumenta con l’aggressività dei taleban e l’Italia rischia di rimanere più impantanata che mai.
Ma nemmeno la sinistra si pone ormai questo problema. Il rifinanziamento delle missioni all’estero non è oggetto di dibattito, se non, forse, da parte di alcune Ong, per il diminuire della percentuale loro destinata rispetto a quella dei militari. Una «cooperazione» che non mette in discussione la presenza militare perché perderebbe ogni finanziamento: un abbraccio mortale che snatura ogni forma di cooperazione e non nobilita l’esercito, il cui obiettivo è comunque la guerra. Una guerra che in Afghanistan non potrà mai vantare neppure una parvenza di vittoria. A meno che si voglia spacciare per vittoria il ritorno dei taleban dopo che il loro allontanamento dal potere era stato l’unico risultato dell’intervento militare nel 2001.
Non solo di Afghanistan si tratta, anche in Iraq la «normalizzazione» è stata più che mai messa in discussione da una nuova offensiva di al Qaeda (al Qaeda Mesopotamia), che vuole proprio in questo paese vendicare l’uccisione di Osama bin Laden con 100 attentati, molti dei quali già consumati. Non si tratta solo di vittime, decine, ma del fatto che questa situazione crea nuovi imbarazzi nel momento in cui, entro fine anno, i 48.000 militari «non combattenti» americani dovrebbero ritirarsi dall’Iraq. Dicono che ne resteranno 10.000 per continuare l’addestramento delle truppe irachene, le stesse che vengono colpite ogni giorno insieme ad altre istituzioni, civili e stranieri. La situazione, secondo alcuni consiglierebbe di chiedere alle truppe Usa di rimandare il ritiro. Ma con quale risultato, visto che finora non sono servite ad evitare quanto succede? E poi nessun partito vuole chiedere agli Usa di rimanere perché sarebbe una richiesta estremamente impopolare (e forse il rimanere sarebbe negativo persino per Obama). L’unico decisamente contrario alla permanenza americana è Muqtada al Sadr, i cui miliziani sono sempre in tenuta da combattimento. Ma si sa, Muqtada è l’uomo fedele all’Iran, dove peraltro vive. Mentre ai confini settentrionali la Turchia (che continua a sostenere il regime siriano) è tornata a combattere pervicacemente i kurdi del Pkk.
Il ritiro delle truppe, più che mai auspicabile, metterebbe in evidenza i fallimenti occidentali, ancora più pesanti da giustificare di fronte alla crisi economica mondiale. Tutto avviene mentre le sorti della Libia sono niente affatto scontate (per la variegata composizione delle forze anti-Gheddafi), mentre il dramma vissuto dai somali, dove gli shebab impediscono anche l’arrivo degli aiuti esterni, ci ricordano che la prima sconsiderata avventura militare è iniziata proprio nel Corno d’Africa. Allora, era il 1992, i bambini morivano nelle braccia della madri che crollavano al suolo esauste, proprio come adesso.

fonte articolo 'Il Manifesto'
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