Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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venerdì 14 gennaio 2011
(IL)LEGITTIMO IMPEDIMENTO - Decisione ineccepibile di Livio Pepino
(vignetta Staino)
La Corte costituzionale ha, infine, deciso: la legge n. 51 del 2010 in tema di impedimento del presidente del Consiglio a comparire in udienza, così come formulata, è costituzionalmente illegittima. In particolare la Corte precisa che il giudizio sulla esistenza o meno di un legittimo impedimento a comparire spetta solo al giudice, che deve valutare se l’impegno concomitante con l’udienza addotto dal premier è effettivamente indifferibile (e ciò nell’ambito di un ragionevole bilanciamento tra esigenze della giurisdizione e tutela della funzione di governo).
Per la terza volta, dunque, il giudice delle leggi (che già aveva «bocciato» il lodo Schifani e il lodo Alfano) dice che la pretesa del presidente del Consiglio di sottrarsi, grazie al suo status, ai procedimenti penali pendenti nei suoi confronti viola i principi fondamentali del nostro ordinamento, che non consente privilegi personali neppure se ammantati dalla forma di legge.
La decisione è ineccepibile. Verrebbe da dire ovvia, e – se vivessimo in un Paese normale – persino caratterizzata da eccessive cautele formali (mi riferisco all’uso della sentenza parzialmente interpretativa in luogo di una declaratoria di incostituzionalità tout court). L’anomalia del sistema previsto dalla legge n. 51 era, infatti, stridente, in particolare laddove si introduceva una sorta di presunzione assoluta e insuperabile di legittimità dell’impedimento addotto dal presidente del Consiglio anziché un vaglio della stessa da parte dell’autorità giudiziaria (come accade per tutti i cittadini e pur tenendo conto della peculiarità del ruolo del premier).
L’evidenza era tale che la stessa maggioranza parlamentare non se l’era sentita di dare a tale previsione carattere di stabilità e ne aveva limitato l’efficacia a un periodo massimo di diciotto mesi (cioè, decodificando, al tempo necessario a trovare diverse e più presentabili soluzioni ai problemi giudiziari del premier). La «cattiva coscienza» del legislatore, del resto, traspariva addirittura dal testo della legge, laddove (nell’art. 2) il fondamento della nuova disciplina veniva individuato non già nell’esigenza di garantire la continuità e tempestività dell’azione di governo ma in quella di tutelare il «sereno svolgimento delle funzioni attribuite (al premier, ndr) dalla Costituzione e dalla legge», vale a dire il diritto del presidente del Consiglio a vivere indisturbato…
Decisione ineccepibile, si è detto. Eppure, sino all’ultimo, l’on. Berlusconi e i suoi collaboratori e portavoce hanno tentato di scongiurarla con pressioni inaudite sui giudici costituzionali (definiti «comunisti» e indicati come responsabili di una situazione di instabilità politica incontrollabile che una sentenza «sfavorevole» al premier avrebbe aperto…). A decisione intervenuta, poi, si susseguono reazioni scomposte di esponenti della maggioranza (che si spingono sino a parlare di sentenza eversiva dell’ordine democratico: sic!) e preannunci di proclami televisivi dell’on. Berlusconi per rintuzzare la «persecuzione» in atto nei suoi confronti. Tutto ciò impone due rilievi.
1) Nonostante le pressioni e le campagne di delegittimazione il sistema di garanzie previsto dalla Costituzione (che ha nella magistratura e nella Corte costituzionale il suo nucleo fondamentale) regge: c’è ancora un giudice a Berlino, e anche a Roma!.
2) L’insofferenza nei confronti di questa «tenuta» è ogni giorno più forte ed è agevole prevedere che i tentativi di limitare l’indipendenza dei giudici (costituzionali e non) si faranno nei giorni prossimi più pressanti: è importante che tutti avvertano l’entità della posta in gioco.
fonte articolo 'Il Manifesto'
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La Corte costituzionale ha, infine, deciso: la legge n. 51 del 2010 in tema di impedimento del presidente del Consiglio a comparire in udienza, così come formulata, è costituzionalmente illegittima. In particolare la Corte precisa che il giudizio sulla esistenza o meno di un legittimo impedimento a comparire spetta solo al giudice, che deve valutare se l’impegno concomitante con l’udienza addotto dal premier è effettivamente indifferibile (e ciò nell’ambito di un ragionevole bilanciamento tra esigenze della giurisdizione e tutela della funzione di governo).
Per la terza volta, dunque, il giudice delle leggi (che già aveva «bocciato» il lodo Schifani e il lodo Alfano) dice che la pretesa del presidente del Consiglio di sottrarsi, grazie al suo status, ai procedimenti penali pendenti nei suoi confronti viola i principi fondamentali del nostro ordinamento, che non consente privilegi personali neppure se ammantati dalla forma di legge.
La decisione è ineccepibile. Verrebbe da dire ovvia, e – se vivessimo in un Paese normale – persino caratterizzata da eccessive cautele formali (mi riferisco all’uso della sentenza parzialmente interpretativa in luogo di una declaratoria di incostituzionalità tout court). L’anomalia del sistema previsto dalla legge n. 51 era, infatti, stridente, in particolare laddove si introduceva una sorta di presunzione assoluta e insuperabile di legittimità dell’impedimento addotto dal presidente del Consiglio anziché un vaglio della stessa da parte dell’autorità giudiziaria (come accade per tutti i cittadini e pur tenendo conto della peculiarità del ruolo del premier).
L’evidenza era tale che la stessa maggioranza parlamentare non se l’era sentita di dare a tale previsione carattere di stabilità e ne aveva limitato l’efficacia a un periodo massimo di diciotto mesi (cioè, decodificando, al tempo necessario a trovare diverse e più presentabili soluzioni ai problemi giudiziari del premier). La «cattiva coscienza» del legislatore, del resto, traspariva addirittura dal testo della legge, laddove (nell’art. 2) il fondamento della nuova disciplina veniva individuato non già nell’esigenza di garantire la continuità e tempestività dell’azione di governo ma in quella di tutelare il «sereno svolgimento delle funzioni attribuite (al premier, ndr) dalla Costituzione e dalla legge», vale a dire il diritto del presidente del Consiglio a vivere indisturbato…
Decisione ineccepibile, si è detto. Eppure, sino all’ultimo, l’on. Berlusconi e i suoi collaboratori e portavoce hanno tentato di scongiurarla con pressioni inaudite sui giudici costituzionali (definiti «comunisti» e indicati come responsabili di una situazione di instabilità politica incontrollabile che una sentenza «sfavorevole» al premier avrebbe aperto…). A decisione intervenuta, poi, si susseguono reazioni scomposte di esponenti della maggioranza (che si spingono sino a parlare di sentenza eversiva dell’ordine democratico: sic!) e preannunci di proclami televisivi dell’on. Berlusconi per rintuzzare la «persecuzione» in atto nei suoi confronti. Tutto ciò impone due rilievi.
1) Nonostante le pressioni e le campagne di delegittimazione il sistema di garanzie previsto dalla Costituzione (che ha nella magistratura e nella Corte costituzionale il suo nucleo fondamentale) regge: c’è ancora un giudice a Berlino, e anche a Roma!.
2) L’insofferenza nei confronti di questa «tenuta» è ogni giorno più forte ed è agevole prevedere che i tentativi di limitare l’indipendenza dei giudici (costituzionali e non) si faranno nei giorni prossimi più pressanti: è importante che tutti avvertano l’entità della posta in gioco.
fonte articolo 'Il Manifesto'
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