
Anche quest’anno le massime autorità politiche, civili, religiose, giudiziarie e giornalistiche hanno commemorato l’anniversario dell’assassinio di
Piersanti Mattarella, l’ex presidente Dc della Regione Sicilia assassinato dalla mafia il 6 gennaio 1980. E, anche quest’anno, hanno tuonato contro i depistaggi e le collusioni che ostacolano l’accertamento della verità. “Fare luce”, “non guardare in faccia nessuno” e “non abbassare la guardia”. Queste celebrazioni sono tutte uguali: non si fa mai un nome, a parte – si capisce – quelli dei morti. Il procuratore
Piero Grasso ha citato fra i depistatori
Vito Ciancimino, opportunamente scomparso nel 2002. Già che c’era, ha parlato anche del fallito attentato dell’Addaura contro
Falcone, accusando imprecisati “elementi che non hanno favorito il normale sviluppo delle indagini”.
Grasso però aveva capito tutto: “Mi assumo il merito di avere iniziato uno stravolgimento della ricostruzione iniziale”. Del resto aveva capito tutto pure su
Mattarella: “Io che ho iniziato a indagare 31 anni fa, ho avuto subito l’intuizione, che però non si è mai potuta dimostrare, che quello di Mattarella fu un delitto politico-mafioso. Ma nemmeno da Cosa nostra si riescono ad avere notizie”. Strano che nessuno dei cronisti presenti, anziché pendere dalle sue labbra, gli abbia rammentato un paio di sentenze della Cassazione. Quella sull’Addaura parla dell’“infame linciaggio” subìto da
Falcone a opera di “ambiti istituzionali” per “delegittimarlo”, lasciando o facendo credere che la bomba al plastico se la fosse messa da solo: “Autorevoli personaggi pubblici” come i giudici
Sica e Misiani (ai vertici dell’Alto Commissariato antimafia) e l’allora colonnello
Mario Mori “si lasciarono andare a imprudenti dichiarazioni” sulla “non funzionalità dell’ordigno” e “contribuirono indirettamente a fornire lo spunto ai molteplici nemici e detrattori del Giudice per inventare la tesi dell’attentato falso o simulato”. Quanto a
Mattarella, nella sentenza del 2003 della Corte d’appello di Palermo, confermata dalla Cassazione su
Andreotti (prescrizione per il “reato commesso” di mafia fino al 1980), si legge che il sette volte premier, ora senatore a vita, “ha indicato” ai boss,
Bontate in primis, “il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella... ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli di fatti gravissimi (come l’assassinio
Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare sull’omicidio
Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza... Egli non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia all’incolumità del presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità e i loro disegni... A seguito del tragico epilogo,
Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi e ad allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è ‘sceso’ in Sicilia per chiedere al
Bontate conto della scelta di sopprimere il presidente della Regione... I mafiosi si sono determinati ad alzare il tiro su un così eminente esponente del partito di maggioranza relativa anche perché... contavano sull’appoggio di ancora più importanti personaggi politici”. Come
Andreotti. Ora, è improbabile che Grasso non conosca questa sentenza, ed è offensivo pensare che non ne parli perché, da procuratore di Palermo, lasciò soli i suoi pm rifiutando di firmare l’appello contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado. E allora vien da domandarsi perché non la citi mai nessuno.
Forse perché fare nomi non conviene? Nel qual caso tanto vale evitare la prossima fiera del tartufo, abolire la commemorazione di
Mattarella e derubricare il caso a suicidio. Anzi, a tragica fatalità.
fonte articolo 'Il Fatto Quotidiano'
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