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di 'Per quel che mi riguarda'

sabato 11 dicembre 2010

PD-ULTIMO E SOLITARIO di Norma Rangeri

(vignetta Giannelli-corriere.it)
Oggi il Pd chiama a raccolta la sua gente. Sarà una grande manifestazione, una partecipata mobilitazione per la democrazia messa a rischio dal ventennio berlusconiano. Nella società appiattita e depressa, nel paese ferito dalla disoccupazione e umiliato dei tagli a quel poco di solidarietà sociale, ogni volta che le persone trovano la forza e la voglia di muoversi contro lo sfascio berlusconiano, è una buona notizia.vTuttavia siamo alla riedizione del no-B-day con due anni di ritardo.
Proprio a dicembre del 2008, Roma fu invasa da centinaia di migliaia di persone, di ogni credo e colore, per il primo, clamoroso avviso di sfratto al Cavaliere. Allora si annunciava l’inizio della fine, i militanti del Pd aderirono in massa nonostante le divisioni del gruppo dirigente che augurò buona fortuna e ne prese le distanze.
Oggi, al contrario, lo stato maggiore del partito sarà schierato a piazza S.Giovanni, ma da solo, senza le altre forze di opposizione che pure avevano chiesto di trasformare l’appuntamento dell’11 dicembre in una iniziativa di tutta la sinistra. Questa solitudine politica, specchio di un capovolgimento di prospettiva, sarà il convitato di pietra mimetizzato, perfino esorcizzato nel mare di bandiere e bande musicali della piazza romana.
Un partito non è un movimento, e una volta declinati i contenuti generali di un programma in un comizio di piazza, bisognerebbe offrire una parola d’ordine, una proposta, in sostanza una prospettiva concreta e le alleanze per realizzarla. Trovarne una del Pd che duri più di ventiquattr’ore senza essere smentita, corretta, fraintesa è complicato. Oggi c’è chi va in piazza per «una manifestazione all’insegna della responsabilità, mica il corteo della spallata» (Fioroni), chi spera, invece, nella partecipazione «di tutto il centrosinistra» (Civati). Nemmeno il «no,grazie» pronunciato da Gianfranco Fini su un governo di salvezza nazionale con il Pd o su una sacra unione nel caso di elezioni anticipate, è considerato un punto fermo perché «è un’affermazione tattica, pre-14 dicembre» (Bindi). Mai dire mai neppure a un dopo-Berlusconi che si dovesse tradurre in un governo-Tremonti.
Per non parlare del puzzle impazzito sulle ipotesi di riforma elettorale. Può bastare a spiegare (per difetto) perché il declino berlusconiano non si traduca, ormai da gran tempo, nell’intenzione di una rinnovata fiducia al Pd, ma o in una definitiva lontananza o nel dirottamento dell’attenzione verso il leaderismo vendoliano.
Si può capire che Bersani tenti di rivendicare un ruolo nella crisi, dipingendola come frutto della propria iniziativa. Può servire a tenere acceso il residuo orgoglio di partito in un momento di massima divisione interna, quando la sirena del terzo polo trova ascolto nella litigiosa famiglia del Nazareno. Ma tutti vedono la verità di una partita giocata nel recinto del centrodestra. E tutti capiscono che per vincere Berlusconi (e, ancor di più, il berlusconismo), bisogna prima battere un altro temibile avversario, la sfiducia profonda in una classe dirigente che finora è stata capace soprattutto di rottamare se stessa.

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