Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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giovedì 11 novembre 2010
Spina staccata di Gianpasquale Santomassimo
(vignetta Mauro Biani)
Alla fine, la spina si stacca da sola. Non è stato un grande discorso quello di Fini, molto prudente nel tono rispetto a quello di Mirabello, ma esplosivo nelle sue conclusioni, impreviste dalla maggior parte degli opinionisti: la richiesta di dimissioni di Berlusconi è l’equivalente di un regicidio nell’Italia del sultanato.
Lo sforzo evidente di Fini è stato quello, peraltro sincero, di contenere tutto il suo discorso all’interno del perimetro della destra. Di una destra, però, che ha cittadinanza e riconoscimento in Europa ma è ancora debole e fragile nella tradizione italiana.
Avevamo parlato, su questo giornale, di "minestrone indigesto" a proposito del manifesto polipartisan degli intellettuali futuristi. Fini ha ripreso l’espressione, per smentirla, rinviando al manifesto costitutivo di Futuro e libertà. In effetti il manifesto politico di Fli nella sua concisione è molto meno fumoso di quello degli intellettuali. Una minestrina dietetica, che non fa male ma non sazia.
A parte l’esordio ormai implacabile nella sua banalità (dalla discesa in campo di Berlusconi nel ’94 tutti i proclami devono iniziare con la dichiarazione d’amore per l’Italia, e così era stato anche per il manifesto del Pd), colpisce il fatto che nel testo non vi sia una sola affermazione che non potrebbe venire sottoscritta dagli esponenti di qualunque corrente del partito democratico. Non è colpa di Fini, ovviamente.
Singolare coincidenza è anche che l’unica ampia citazione letteraria nel discorso di Fini sia la stessa di Saint-Exupery scelta da Veltroni nel discorso del Lingotto Due nuovi partiti che si fondano adottando lo stesso elegante scrittore francese caro agli adolescenti.
I motivi di contaminazione (del resto teorizzati e cercati come benemeriti) sono anche altri: la cultura espressa dalla sala era abbastanza particolare, e fotografava bene il passaggio in una terra di mezzo dai contorni ancora indistinti. Braccia che si tendevano all’inno nazionale, per riabbassarsi precipitosamente, gadget a mezza strada tra Predappio e Hyde Park, terminologia che rifletteva la confluenza di tradizioni e pulsioni apparentemente inconciliabili.
Molti discorsi ascoltati avrebbero trovato cittadinanza piena in una assise del Pd, e l’intervento di Fabio Granata sarebbe stato applaudito in un congresso dell’Italia dei valori. L’applauso liberatorio e scrosciante che ha accolto la richiesta di dimissioni del governo evidenzia l’esistenza, ormai innegabile, di un motivato antiberlusconismo di destra, che è uscito dalle catacombe e può esprimersi con tutta la forza di una frustrazione a lungo trattenuta. Ma, su tutto, un leaderismo preoccupante, che confina con il culto della personalità. Non vi farò mai cantare «Meno male che Gianfranco c’è», promette Fini. Ma troppi discorsi sono di fedeli adoranti, si fondano su una lealtà personale che si contrappone a quella infranta o tradita verso il caudillo declinante. Gianfranco queste sono le tue donne, andremo dove tu vorrai, dice Barbara Contini, che pure è persona adulta e con pratica di politica internazionale. Probabilmente questa personalizzazione della politica è inevitabile, e i casi di leaderismo non mancano anche a sinistra: ci auguriamo però ci vengano risparmiate esperienze di questo tipo. In conclusione, Fini offre a Berlusconi l’ultima possibilità di guidare una compagine di governo di centro-destra, allargata ai "moderati"; ma sa benissimo che B. non può accettare questa offerta, e che dovrà decidere se tirare avanti col precario appoggio esterno di un Fini assolutamente condizionante, o chiedere subito le elezioni anticipate.
L’ipotesi nettamente più probabile è ovviamente la seconda, e a questo punto si apriranno i veri problemi per Fini (e per tutti noi). In tema di contaminazione fra tradizioni, il rottamatore di Firenze teorizzava qualche sera fa in televisione che bisogna andare subito alle elezioni, con questa legge, che si vinca o che si perda. In mezzo a loro, Italo Bocchino sembrava un gigante del pensiero politico. Qualcuno dovrebbe spiegare pacatamente ma con fermezza che le prossime elezioni non sono le Olimpiadi, che l’importante non è partecipare e fare bella figura, e che se si perde si perde tutto. Non siamo al 25 aprile, e non è molto probabile che ci arriveremo.
Siamo in una notte interminabile tra 24 e 25 luglio, in cui forse si intravede l’alba.
Fonte articolo 'Il Manifesto'
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Alla fine, la spina si stacca da sola. Non è stato un grande discorso quello di Fini, molto prudente nel tono rispetto a quello di Mirabello, ma esplosivo nelle sue conclusioni, impreviste dalla maggior parte degli opinionisti: la richiesta di dimissioni di Berlusconi è l’equivalente di un regicidio nell’Italia del sultanato.
Lo sforzo evidente di Fini è stato quello, peraltro sincero, di contenere tutto il suo discorso all’interno del perimetro della destra. Di una destra, però, che ha cittadinanza e riconoscimento in Europa ma è ancora debole e fragile nella tradizione italiana.
Avevamo parlato, su questo giornale, di "minestrone indigesto" a proposito del manifesto polipartisan degli intellettuali futuristi. Fini ha ripreso l’espressione, per smentirla, rinviando al manifesto costitutivo di Futuro e libertà. In effetti il manifesto politico di Fli nella sua concisione è molto meno fumoso di quello degli intellettuali. Una minestrina dietetica, che non fa male ma non sazia.
A parte l’esordio ormai implacabile nella sua banalità (dalla discesa in campo di Berlusconi nel ’94 tutti i proclami devono iniziare con la dichiarazione d’amore per l’Italia, e così era stato anche per il manifesto del Pd), colpisce il fatto che nel testo non vi sia una sola affermazione che non potrebbe venire sottoscritta dagli esponenti di qualunque corrente del partito democratico. Non è colpa di Fini, ovviamente.
Singolare coincidenza è anche che l’unica ampia citazione letteraria nel discorso di Fini sia la stessa di Saint-Exupery scelta da Veltroni nel discorso del Lingotto Due nuovi partiti che si fondano adottando lo stesso elegante scrittore francese caro agli adolescenti.
I motivi di contaminazione (del resto teorizzati e cercati come benemeriti) sono anche altri: la cultura espressa dalla sala era abbastanza particolare, e fotografava bene il passaggio in una terra di mezzo dai contorni ancora indistinti. Braccia che si tendevano all’inno nazionale, per riabbassarsi precipitosamente, gadget a mezza strada tra Predappio e Hyde Park, terminologia che rifletteva la confluenza di tradizioni e pulsioni apparentemente inconciliabili.
Molti discorsi ascoltati avrebbero trovato cittadinanza piena in una assise del Pd, e l’intervento di Fabio Granata sarebbe stato applaudito in un congresso dell’Italia dei valori. L’applauso liberatorio e scrosciante che ha accolto la richiesta di dimissioni del governo evidenzia l’esistenza, ormai innegabile, di un motivato antiberlusconismo di destra, che è uscito dalle catacombe e può esprimersi con tutta la forza di una frustrazione a lungo trattenuta. Ma, su tutto, un leaderismo preoccupante, che confina con il culto della personalità. Non vi farò mai cantare «Meno male che Gianfranco c’è», promette Fini. Ma troppi discorsi sono di fedeli adoranti, si fondano su una lealtà personale che si contrappone a quella infranta o tradita verso il caudillo declinante. Gianfranco queste sono le tue donne, andremo dove tu vorrai, dice Barbara Contini, che pure è persona adulta e con pratica di politica internazionale. Probabilmente questa personalizzazione della politica è inevitabile, e i casi di leaderismo non mancano anche a sinistra: ci auguriamo però ci vengano risparmiate esperienze di questo tipo. In conclusione, Fini offre a Berlusconi l’ultima possibilità di guidare una compagine di governo di centro-destra, allargata ai "moderati"; ma sa benissimo che B. non può accettare questa offerta, e che dovrà decidere se tirare avanti col precario appoggio esterno di un Fini assolutamente condizionante, o chiedere subito le elezioni anticipate.
L’ipotesi nettamente più probabile è ovviamente la seconda, e a questo punto si apriranno i veri problemi per Fini (e per tutti noi). In tema di contaminazione fra tradizioni, il rottamatore di Firenze teorizzava qualche sera fa in televisione che bisogna andare subito alle elezioni, con questa legge, che si vinca o che si perda. In mezzo a loro, Italo Bocchino sembrava un gigante del pensiero politico. Qualcuno dovrebbe spiegare pacatamente ma con fermezza che le prossime elezioni non sono le Olimpiadi, che l’importante non è partecipare e fare bella figura, e che se si perde si perde tutto. Non siamo al 25 aprile, e non è molto probabile che ci arriveremo.
Siamo in una notte interminabile tra 24 e 25 luglio, in cui forse si intravede l’alba.
Fonte articolo 'Il Manifesto'
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