Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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giovedì 30 settembre 2010
Fiducia a pezzi di Norma Rangeri
(vignetta Romaniello)
Le riforme, il Sud, la giustizia, le tasse, la sicurezza, il federalismo, la patria, la famiglia, e poi,
nel finale, la verità: «Questa notte ho visto i focus-group, dicono che, se ci fossero le elezioni, i cittadini non andrebbero a votare». E’ tutto qui il senso della fiducia-fiction votata ieri al governo Berlusconi dalla rattoppata maggioranza.
L’unica cosa che veramente conta per il presidente del consiglio sono i sondaggi che gli agitano le notti con il pericolo rosso di un’onda anomala di astensionismo. Se il capo del governo fosse costretto a portare il paese alle urne rischierebbe di pagarne un prezzo salato. Meglio archiviare pubblicamente la minaccia di elezioni anticipate ora che l’imperatore è diventato un re travicello, con la maggioranza finita in pezzi.
Chi fino a ieri suonava i tromboni della propaganda annunciando il voto di fiducia come momento di svolta della legislatura, si è dovuto accontentare di una mediocre recita, iniziata con roboanti citazioni dei padri nobili e finita con la grottesca elencazione di strade e ferrovie da completare, fino all’irrisorio boato con cui l’aula ha accolto la promessa della Salerno-Reggio Calabria.
Di fronte all’assemblea di Montecitorio e davanti alle telecamere è andata in scena la rappresentazione imbarazzante della trentasettesima fiducia chiesta da un capo del governo prigioniero del proprio fallimento. Il Cavaliere oggi è tenuto in sella da un salvagente sgonfio (i 342 voti di fiducia registrano la golden share di Fini, Lombardo e Bossi), che ancora non esplode in una crisi parlamentare conclamata solo perché coglierebbe controtempo gli attori principali mettendone a repentaglio il consenso conquistato appena due anni fa.
Nessuna rottura è stata sanata, nonostante le pezze cucite in fretta in un documento recitato sottotono. I veleni del corpo a corpo barbaro tra i duellanti ne hanno minato fiducia e popolarità: i leader del centrodestra sono in apnea. Il risultato del voto mostra tutti i segni delle crepe, Bossi lo sa e il suo commento alla giornata (culminata con l’annuncio della nascita del partito di Fini) è un lucido bilancio dei fatti («troppo pochi per andare avanti»).
Il divieto di dissenso, la gestione monarchica del potere, del partito e del paese presenta il conto appesantito dalla volgarità del discorso pubblico.
Dopo aver perso l’applauso di Confindustria, messo a rischio il consenso delle regioni meridionali, tentato con ricatti e minacce mediatiche di eliminare il competitore, il capo indiscusso che sventolava con baldanza il ricorso al popolo sovrano da oggi deve camminare sulla sabbia delle maggioranze variabili, plasticamente rappresentate dalla moltiplicazione delle mozioni (identiche) presentate dai vari gruppi (Pld, Fli-Mpa, Noi Sud). E quanto più Berlusconi ieri faceva appello «all’intero parlamento, a tutti imoderati» spingendosi fino ai confini proibiti «dei più responsabili riformisti dell’opposizione », tanto più risultava evidente la sensazione di una fine solo rinviata.
Fonte articolo 'Il Manifesto)
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AAA offronsi senatori prezzi modici di Marco Travaglio
Le riforme, il Sud, la giustizia, le tasse, la sicurezza, il federalismo, la patria, la famiglia, e poi,
nel finale, la verità: «Questa notte ho visto i focus-group, dicono che, se ci fossero le elezioni, i cittadini non andrebbero a votare». E’ tutto qui il senso della fiducia-fiction votata ieri al governo Berlusconi dalla rattoppata maggioranza.
L’unica cosa che veramente conta per il presidente del consiglio sono i sondaggi che gli agitano le notti con il pericolo rosso di un’onda anomala di astensionismo. Se il capo del governo fosse costretto a portare il paese alle urne rischierebbe di pagarne un prezzo salato. Meglio archiviare pubblicamente la minaccia di elezioni anticipate ora che l’imperatore è diventato un re travicello, con la maggioranza finita in pezzi.
Chi fino a ieri suonava i tromboni della propaganda annunciando il voto di fiducia come momento di svolta della legislatura, si è dovuto accontentare di una mediocre recita, iniziata con roboanti citazioni dei padri nobili e finita con la grottesca elencazione di strade e ferrovie da completare, fino all’irrisorio boato con cui l’aula ha accolto la promessa della Salerno-Reggio Calabria.
Di fronte all’assemblea di Montecitorio e davanti alle telecamere è andata in scena la rappresentazione imbarazzante della trentasettesima fiducia chiesta da un capo del governo prigioniero del proprio fallimento. Il Cavaliere oggi è tenuto in sella da un salvagente sgonfio (i 342 voti di fiducia registrano la golden share di Fini, Lombardo e Bossi), che ancora non esplode in una crisi parlamentare conclamata solo perché coglierebbe controtempo gli attori principali mettendone a repentaglio il consenso conquistato appena due anni fa.
Nessuna rottura è stata sanata, nonostante le pezze cucite in fretta in un documento recitato sottotono. I veleni del corpo a corpo barbaro tra i duellanti ne hanno minato fiducia e popolarità: i leader del centrodestra sono in apnea. Il risultato del voto mostra tutti i segni delle crepe, Bossi lo sa e il suo commento alla giornata (culminata con l’annuncio della nascita del partito di Fini) è un lucido bilancio dei fatti («troppo pochi per andare avanti»).
Il divieto di dissenso, la gestione monarchica del potere, del partito e del paese presenta il conto appesantito dalla volgarità del discorso pubblico.
Dopo aver perso l’applauso di Confindustria, messo a rischio il consenso delle regioni meridionali, tentato con ricatti e minacce mediatiche di eliminare il competitore, il capo indiscusso che sventolava con baldanza il ricorso al popolo sovrano da oggi deve camminare sulla sabbia delle maggioranze variabili, plasticamente rappresentate dalla moltiplicazione delle mozioni (identiche) presentate dai vari gruppi (Pld, Fli-Mpa, Noi Sud). E quanto più Berlusconi ieri faceva appello «all’intero parlamento, a tutti imoderati» spingendosi fino ai confini proibiti «dei più responsabili riformisti dell’opposizione », tanto più risultava evidente la sensazione di una fine solo rinviata.
Fonte articolo 'Il Manifesto)
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