Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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mercoledì 30 giugno 2010
Condannato e festeggiato di Andrea Fabozzi
Bisognerà mettere da parte le pacche sulle spalle, conservare bene i sorrisi e le dichiarazioni festose, ricordare a lungo la soddisfazione con la quale il governo e la maggioranza hanno accolto la condanna di Marcello Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Didascalia migliore per questa Italia 2010 non riusciremo a trovare. Il fondatore di Forza Italia - «senza di lui non sarebbe mai esistita» ha chiarito una volta e per tutte Silvio Berlusconi - è stato riconosciuto colpevole di aver concretamente avvantaggiato Cosa nostra. Si tratta di una condanna di secondo grado che è definitiva nel merito. I suoi amici festeggiano.
Il presupposto del reato è appunto il procurato vantaggio all’associazione mafiosa, non il contrario come ha detto l’avvocato di Dell’Utri secondo il quale l’unica colpa riconosciuta al senatore sarebbe quella di aver voluto proteggere le attività di Berlusconi. Una gioia subitanea è esplosa nei petti delle specchiate figure del centrodestra, tipo l’onorevole Denis Verdini. Una gioia troppo forte per fermarsi davanti all’impiccio dei sette anni di carcere. Messa da parte la condanna penale, si è festeggiata l’assoluzione politica. È stato molto chiaro l’avvocato ministro La Russa, che ha studiato diritto ma anche Machiavelli sul Bignami: «È una condanna pesante ma è un grosso successo dal punto di vista politico».
Su questi riconoscimenti si fonda la tranquillità del senatore Dell’Utri, celebrato campione della morale pubblica corrente. L’uomo, «il più mite e più religioso che io abbia mai conosciuto» secondo un’altra celebre definizione di Berlusconi, non ha aspettato un’ora dalla sentenza per mandare i suoi messaggi nello stile dell’associazione alla quale ha concorso. Ha fatto le «condoglianze» al magistrato che lo ha accusato. Ha detto che non farà il ministro perché preferisce scegliere i ministri, evidentemente ricordando l’insegnamento che comandare è meglio che fottere. Infine ha ripetuto l’indecente elogio del mafioso Vittorio Mangano, eroe perché non ha parlato. Un tributo al morto indirizzato ai vivi, una conferma di quello stesso rispetto che il vecchio e ormai malato Mangano aveva dimostrato nell’aula del tribunale dodici anni fa, quando chiarì che «la fiducia che Berlusconi ha in me è la stessa che io ho in lui».
Se, come dalla sentenza di ieri, per i giudici di appello non sussiste il concorso esterno di Dell’Utri dopo il 1992, sussistono indagini di ben tre procure antimafia sui rapporti tra Cosa nostra e Forza Italia nel periodo fatale in cui maturò la «discesa in campo» di Berlusconi.
Questo lo sanno bene gli esponenti del centrodestra che ieri si sono affrettati a festeggiare la riconsegnata onorabilità al partito azzurro, facendo esattamente quella operazione che in genere criticano: speculazione politica generale a partire dalle vicende processuali di un singolo.
Lo sanno bene anche gli onorevoli La Loggia e Miccichè, secondo i quali «l’assurdo teorema mafia-politica è stato spazzato via». Potrebbe persino essere una buona notizia: il partito che da sedici anni detiene la maggioranza relativa non ha nulla a che vedere con la mafia.
Ma se fosse davvero così, se la sentenza di ieri avesse chiarito una volta e per sempre che non c’è stato alcun legame tra la nascita di Forza Italia e i piani di Cosa nostra, resterebbe da spiegare come mai tanti mafiosi si impegnarono per il partito di Berlusconi in quella campagna elettorale del ’94, aprirono circoli di Forza Italia. Come mai il materiale elettorale di La Loggia e Miccichè fu sequestrato nella casa di Pino Mandalari, mafioso e massone, curatore degli interessi economici di Liggio, Riina e Badalamenti.
Fonte articolo e vignetta 'Il Manifesto'
Link collegati:
Pronto, chi parla? di Marco Travaglio
Il presupposto del reato è appunto il procurato vantaggio all’associazione mafiosa, non il contrario come ha detto l’avvocato di Dell’Utri secondo il quale l’unica colpa riconosciuta al senatore sarebbe quella di aver voluto proteggere le attività di Berlusconi. Una gioia subitanea è esplosa nei petti delle specchiate figure del centrodestra, tipo l’onorevole Denis Verdini. Una gioia troppo forte per fermarsi davanti all’impiccio dei sette anni di carcere. Messa da parte la condanna penale, si è festeggiata l’assoluzione politica. È stato molto chiaro l’avvocato ministro La Russa, che ha studiato diritto ma anche Machiavelli sul Bignami: «È una condanna pesante ma è un grosso successo dal punto di vista politico».
Su questi riconoscimenti si fonda la tranquillità del senatore Dell’Utri, celebrato campione della morale pubblica corrente. L’uomo, «il più mite e più religioso che io abbia mai conosciuto» secondo un’altra celebre definizione di Berlusconi, non ha aspettato un’ora dalla sentenza per mandare i suoi messaggi nello stile dell’associazione alla quale ha concorso. Ha fatto le «condoglianze» al magistrato che lo ha accusato. Ha detto che non farà il ministro perché preferisce scegliere i ministri, evidentemente ricordando l’insegnamento che comandare è meglio che fottere. Infine ha ripetuto l’indecente elogio del mafioso Vittorio Mangano, eroe perché non ha parlato. Un tributo al morto indirizzato ai vivi, una conferma di quello stesso rispetto che il vecchio e ormai malato Mangano aveva dimostrato nell’aula del tribunale dodici anni fa, quando chiarì che «la fiducia che Berlusconi ha in me è la stessa che io ho in lui».
Se, come dalla sentenza di ieri, per i giudici di appello non sussiste il concorso esterno di Dell’Utri dopo il 1992, sussistono indagini di ben tre procure antimafia sui rapporti tra Cosa nostra e Forza Italia nel periodo fatale in cui maturò la «discesa in campo» di Berlusconi.
Questo lo sanno bene gli esponenti del centrodestra che ieri si sono affrettati a festeggiare la riconsegnata onorabilità al partito azzurro, facendo esattamente quella operazione che in genere criticano: speculazione politica generale a partire dalle vicende processuali di un singolo.
Lo sanno bene anche gli onorevoli La Loggia e Miccichè, secondo i quali «l’assurdo teorema mafia-politica è stato spazzato via». Potrebbe persino essere una buona notizia: il partito che da sedici anni detiene la maggioranza relativa non ha nulla a che vedere con la mafia.
Ma se fosse davvero così, se la sentenza di ieri avesse chiarito una volta e per sempre che non c’è stato alcun legame tra la nascita di Forza Italia e i piani di Cosa nostra, resterebbe da spiegare come mai tanti mafiosi si impegnarono per il partito di Berlusconi in quella campagna elettorale del ’94, aprirono circoli di Forza Italia. Come mai il materiale elettorale di La Loggia e Miccichè fu sequestrato nella casa di Pino Mandalari, mafioso e massone, curatore degli interessi economici di Liggio, Riina e Badalamenti.
Fonte articolo e vignetta 'Il Manifesto'
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