Ora a Parigi, al vertice Ocse - e quasi in corrispondenza del settantesimo anniversario della «pugnalata alla schiena» della Francia sconfitta - trova modo di citare Benito Mussolini («colui che era considerato come un grande dittatore») attraverso i falsi diari passatigli in fotocopia da Dell’Utri, quel Mussolini che come lui si lamentava di non disporre di un vero potere, a differenza dei propri gerarchi.
Questa identificazione si può leggere in vari modi. Berlusconi non è fascista, gli manca cultura e senso di tragica ambizione di un’epoca di ferro e fuoco, nel suo orizzonte personale c’è solo megalomania fine a se stessa e nei suoi adoratori c’è solo avidità smisurata di un’Italia cialtrona che gestisce il declino mettendo, anzi affondando, le mani nelle tasche dell’altra metà degli italiani. La sua visione del fascismo è quella edulcorata di una dittatura bonacciona e generosa (quella disegnata nei falsi diari), immagine che si è formata nei decenni del mancato esame di coscienza degli italiani e riaffiorata con prepotenza ad assoluzione ormai asserita e ostentata dal senso comune reazionario degli ultimi vent’anni.
Ma il continuo piagnisteo sullo scarso potere di cui dispone cela volizioni non rassicuranti: il sogno di un «vero» regime, al di là di quello mediatico e affaristico già in atto, poter «comandare» senza più limiti e ostacoli. Forse affiora la possibilità mai esclusa, che è nell’ordine delle cose, di chiamare ancora una volta, con una sfida estrema e disperata, al plebiscito attorno alla sua persona. O forse vengono a galla stanchezza e insofferenza verso i suoi «gerarchi», ministri che impongono volontà e competenze che lui non possiede, e perfino industriali che rifiutano di prender parte entusiasti alle sue pagliacciate.
In ogni caso si aprono prospettive inquietanti, mentre affiora la realtà di un paese impoverito al termine del ciclo che Berlusconi si è ormai intestato, di una coesione sociale e nazionale che sta andando a pezzi, di un’Italia che non sa più guardare al futuro e ha dimenticato tutto quello che va oltre la nebbia del presente eterno in cui viviamo. Forse questa agonia penosa può finire davvero con una rivolta di gerarchi, un 25 luglio che, a somiglianza dell’originale, tenti di salvare il salvabile sacrificando il duce. O può aprirsi
una crisi rovinosa e improvvisa del consenso popolare, che può anche significare, nell’Italia barbarica di oggi, disgregazione ingovernabile piuttosto che rinascita.
Fonte articolo 'Il Manifesto'
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