Libertà di pensiero è la "capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (Immanuel Kant)
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lunedì 1 febbraio 2010
Haiti, diario della disperazione: 'C’è anche chi per protesta diseppelisce i suoi cadaveri' di Charley Trevant
Charley Trevant, 41 anni, medico ginecologo, ha uno studio e lavora in ospedale, vive sulle colline di Port-au-prince a Thomassin. La sua casa ha resistito al terremoto. Da allora il terrore non lo abbandona, soprattutto la notte. Con la moglie Felicienne dorme nella corte della sua abitazione, dove la coppia ospita una dozzina di bisognosi. Solo aiutando gli altri riescono a scacciare il dolore di aver allontanano i figli: Charleyne Christel (13 anni), Carl-Olivier (10 anni) e Charley Vince (otto mesi) hanno lasciato Haiti con la nonna, ora sono da parenti negli Usa.
Lunedì 25 gennaio ‘10
Mi sveglio alle sei e, come ogni mattina dal sisma, condivido sogni e angosce con le persone che hanno dormito nella corte di casa mia: chi stipato in un’autovettura, chi sulla terra nuda E’ un rito che dà la forza di iniziare una nuova giornata. Con Felicienne andiamo in città, alla prima curva ci attende uno spettacolo macabro. Ci sono corpi che bruciano in mezzo alla strada, pile di cadaveri in putrefazione estratti da sotto le macerie e arsi. Attorno i parenti. Sui loro volti la rabbia di chi si sente abbandonato dallo Stato. Qualche chilometro più avanti, davanti al collegio di mia figlia, ci sono monconi di mani, gambe e altre membra umane dissotterrate dalle macerie ed esposte. È un atto di protesta per obbligare le autorità ad attivarsi negli scavi. Quando arriviamo in città la tristezza svanisce portata via dai canti della gente, pregare è terapeutico, un inno alla vita, il bene più prezioso, l’unico che resta a molti sopravissuti. Ci si aiuta. Fioriscono piccoli commerci di fortuna, bancarelle con cibo, piccoli attrezzi, parrucchiere improvvisate. È solo grazie alla diaspora haitiana che tanta gente non è morta di fame, gli aiuti dei parenti emigrati sono arrivati subito tramite i servizi di trasferimento di denaro.
Martedì , 26 gennaio ‘10
Alle cinque la terra trema, ci svegliamo tra le urla, la scossa era di 4,3 gradi. Nessuno è ferito. Il primo pensiero va ai miei tre figli al sicuro negli Stati Uniti. Separarci è stata durissima, non volevano andarsene senza di noi, hanno pianto, protestato, ne abbiamo discusso a lungo. Ma cosa si può dire ad un giovane che ha visto cadaveri disseminati lungo le strade, la scuola crollare, che ha sentito le urla di migliaia di vittime, tra cui compagni e professori. Vedere tutto ciò alla televisione è un conto. Viverlo è tutta un’altra storia. C’è una differenza enorme. Trascorro la giornata allo studio medico, mi accompagna un elettricista per istallare un generatore di elettricità e far funzionare i macchinari. Vedo qualche paziente, ognuna ha una storia triste da raccontare.
Mercoledì 27 gennaio ‘10
Alle 7.45 sono all’ospedale Espoir dove sono consulente ginecologo, c’è bisogno di medici, quindi aiuto un’equipe tedesca con migliaia di feriti. Si opera nella corte o sotto tende, perché la una psicosi collettiva di restare intrappolati in una struttura con più piani ha contagiato tutti: pazienti, medici e infermieri. Più tardi vedo alla clinica prenatale universitaria Isaie Jeanty dove sono vice primario. I consulti ginecologici non sono ancora ripresi, la clinica è stata trasformata da un gruppo di medici stranieri in un centro urgenze. Per le donne con problemi di gravidanza non c’è più spazio. Non va bene. Ne discutiamo con i colleghi di “Medecin sans frontière” e troviamo un accordo, loro occupano 2/3 della clinica e lasciano alle urgenze ginecologiche il resto.
Giovedì 28 gennaio
La giornata inizia male, l’auto non parte, la batteria è scarica. Grazie all’aiuto di un amico metto in moto e raggiungo il garage. Spero di farcela in 20 minuti. Ma dopo cinque ore sono ancora bloccato lì. Il meccanico togliendo la batteria ha rotto un pezzo del sistema di raffreddamento, si è ustionato il braccio e il telefono continua a squillare: mi cercano dall’ospedale, dove sono atteso.
Venerdì 29 gennaio ‘10
Ci sveglia un’amica di mia moglie: è stata prelevata dall’auto dove dormiva, spogliata e rilasciata dopo mezz’ora. È terrorizzata. Talvolta mi chiedo perché tanti lavoratori onesti sono stati falciati dal terremoto e altrettanti delinquenti possono invece continuare a violentare, rubare, rapire. Prima di andare allo studio, passo in banca per trasferire soldi ai miei figli negli Usa. Di pazienti ce ne sono pochi, tanti sono morti, altri sono partiti, altri ancora hanno ben altre priorità.
Per il Caffè il medico tiene un diario da un Paese in ginocchio. (Traduzione e adattamento di Simonetta Caratti)
Fonte articolo
Lunedì 25 gennaio ‘10
Mi sveglio alle sei e, come ogni mattina dal sisma, condivido sogni e angosce con le persone che hanno dormito nella corte di casa mia: chi stipato in un’autovettura, chi sulla terra nuda E’ un rito che dà la forza di iniziare una nuova giornata. Con Felicienne andiamo in città, alla prima curva ci attende uno spettacolo macabro. Ci sono corpi che bruciano in mezzo alla strada, pile di cadaveri in putrefazione estratti da sotto le macerie e arsi. Attorno i parenti. Sui loro volti la rabbia di chi si sente abbandonato dallo Stato. Qualche chilometro più avanti, davanti al collegio di mia figlia, ci sono monconi di mani, gambe e altre membra umane dissotterrate dalle macerie ed esposte. È un atto di protesta per obbligare le autorità ad attivarsi negli scavi. Quando arriviamo in città la tristezza svanisce portata via dai canti della gente, pregare è terapeutico, un inno alla vita, il bene più prezioso, l’unico che resta a molti sopravissuti. Ci si aiuta. Fioriscono piccoli commerci di fortuna, bancarelle con cibo, piccoli attrezzi, parrucchiere improvvisate. È solo grazie alla diaspora haitiana che tanta gente non è morta di fame, gli aiuti dei parenti emigrati sono arrivati subito tramite i servizi di trasferimento di denaro.
Martedì , 26 gennaio ‘10
Alle cinque la terra trema, ci svegliamo tra le urla, la scossa era di 4,3 gradi. Nessuno è ferito. Il primo pensiero va ai miei tre figli al sicuro negli Stati Uniti. Separarci è stata durissima, non volevano andarsene senza di noi, hanno pianto, protestato, ne abbiamo discusso a lungo. Ma cosa si può dire ad un giovane che ha visto cadaveri disseminati lungo le strade, la scuola crollare, che ha sentito le urla di migliaia di vittime, tra cui compagni e professori. Vedere tutto ciò alla televisione è un conto. Viverlo è tutta un’altra storia. C’è una differenza enorme. Trascorro la giornata allo studio medico, mi accompagna un elettricista per istallare un generatore di elettricità e far funzionare i macchinari. Vedo qualche paziente, ognuna ha una storia triste da raccontare.
Mercoledì 27 gennaio ‘10
Alle 7.45 sono all’ospedale Espoir dove sono consulente ginecologo, c’è bisogno di medici, quindi aiuto un’equipe tedesca con migliaia di feriti. Si opera nella corte o sotto tende, perché la una psicosi collettiva di restare intrappolati in una struttura con più piani ha contagiato tutti: pazienti, medici e infermieri. Più tardi vedo alla clinica prenatale universitaria Isaie Jeanty dove sono vice primario. I consulti ginecologici non sono ancora ripresi, la clinica è stata trasformata da un gruppo di medici stranieri in un centro urgenze. Per le donne con problemi di gravidanza non c’è più spazio. Non va bene. Ne discutiamo con i colleghi di “Medecin sans frontière” e troviamo un accordo, loro occupano 2/3 della clinica e lasciano alle urgenze ginecologiche il resto.
Giovedì 28 gennaio
La giornata inizia male, l’auto non parte, la batteria è scarica. Grazie all’aiuto di un amico metto in moto e raggiungo il garage. Spero di farcela in 20 minuti. Ma dopo cinque ore sono ancora bloccato lì. Il meccanico togliendo la batteria ha rotto un pezzo del sistema di raffreddamento, si è ustionato il braccio e il telefono continua a squillare: mi cercano dall’ospedale, dove sono atteso.
Venerdì 29 gennaio ‘10
Ci sveglia un’amica di mia moglie: è stata prelevata dall’auto dove dormiva, spogliata e rilasciata dopo mezz’ora. È terrorizzata. Talvolta mi chiedo perché tanti lavoratori onesti sono stati falciati dal terremoto e altrettanti delinquenti possono invece continuare a violentare, rubare, rapire. Prima di andare allo studio, passo in banca per trasferire soldi ai miei figli negli Usa. Di pazienti ce ne sono pochi, tanti sono morti, altri sono partiti, altri ancora hanno ben altre priorità.
Per il Caffè il medico tiene un diario da un Paese in ginocchio. (Traduzione e adattamento di Simonetta Caratti)
Fonte articolo
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